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Traduzione come mediazione culturale

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  Abbiamo già visto nell'unità 17, parlando della traduzione intertestuale, il concetto lotmaniano di «semiosfera» che implica la definizione del concetto di «limite» o «confine». Il primo limite con cui l'essere umano ha a che fare, nei primi mesi di vita, è quello tra il proprio interno e l'esterno.

  Nella percezione del neonato, non esistono delimitazioni precise. Il seno materno, per esempio, che per il neonato è un oggetto con cui viene a contatto molto spesso, può inizialmente essere considerato molto più "proprio" della punta del suo piede, che magari verrà scoperta in un secondo tempo durante una spedizione all'esplorazione di quello che, per il momento, è genericamente il mondo, la realtà.

  Esistono anche per il neonato delle figure proprie e delle figure altrui, come attesta il fatto che, per esempio, l'immagine del viso materno o il suono della voce materna (e questo può valere anche per altre figure che ricoprono un ruolo simile, come il padre, la baby sitter ecc.) possono servire a tranquillizzare il neonato.

  Intorno al settimo-ottavo mese di vita, il neonato sviluppa di solito la cosiddetta «angoscia dell'estraneo»: ha imparato a distinguere le figure familiari (proprie), e ad avere fiducia in esse, e sta imparando a diffidare di quelle sconosciute (altrui).

  Inoltre, nell'unità 5 abbiamo visto come la percezione del significato di una parola sia filtrata attraverso l'esperienza individuale, come lo spettro semantico di una parola non possa essere esattamente identico per due parlanti, in quanto parzialmente costruito sulla base dell'esperienza individuale.

  La comunicazione, in ogni caso, è un'attività possibile, anche se non esiste una "comunicazione totale", e qualsiasi atto comunicativo, come abbiamo visto, lascia un residuo.

  Il traduttore deve farsi carico, oltre che della mediazione linguistica, anche della mediazione culturale, attività che tutti praticano in modo più o meno consapevole. All'interno di uno stesso linguaggio naturale possono essere diversi i modi per esprimere qualcosa, e spesso questi modi dipendono dalla cultura familiare, locale, regionale, nazionale: la semiosfera, per riprendere il fortunato termine di Lotman, è costituita da cellule e da sottocellule. La più piccola è l'individuo, la più grande l'universo. E in mezzo ci sono insiemi che contengono più di un individuo che hanno in comune alcune modalità comunicative, come per esempio la famiglia:

Nella mia casa paterna, quand'ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: «Non fate malagrazie!»

Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava: «Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! non fate potacci!»

Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire.

Diceva: «Voialtri non sapete stare a tavola! Non siete gente da portare nei loghi!»i.

  L'incipit di Lessico famigliare di Natalia Ginzburg ci è sembrato un buon esempio di come, nell'àmbito della lingua italiana, all'interno di ogni famiglia possa crearsi una cultura propria, in contrapposizione alla cultura altrui del resto della società italiana. Natalia Ginzburg si è posta come mediatrice culturale tra la propria famiglia di origine e l'italiano standard, e ha "tradotto" per noi alcune peculiarità lessicali che, nella maggior parte dei casi, vanno invece perdute insieme con le persone che le hanno inventate e praticate, spesso inconsapevolmente.

  Quella parte della traduzione che è la mediazione culturale, è perciò un'attività che tutti pratichiamo nella quotidianità.

[...] ogni forma di dialogo e di comunicazione costruttiva è sin dalle sue origini fondata sulla base di emozioni condivise, come lo è la prima costruzione dei significati attraverso cui i bambini "danno senso" al mondoii. La penetrazione capillare delle pratiche di mediazione entro la nostra cultura dovrà passare attraverso un'educazione all'empatiaiii.

Non solo pratichiamo tutti i giorni la mediazione culturale, ma sappiamo anche differenziare questa nostra attività a seconda del tipo di relazione che sussiste tra individui dal punto di vista affettivo:

Se fra due persone esiste un rapporto amicale o, comunque, se è in atto un sottostante intento comunicativo, le parole sono intese in maniera profondamente diversa da quelle scambiate fra nemici o persone indifferenti l'una all'altraiv.

  Il traduttore è un mediatore speciale, che, a differenza del mediatore in psicologia, deve concentrarsi sui legami culturali anziché su quelli affettivi:

[...] ogni persona che abbia l'onore e l'onere di essere tale deve essere in fondo "mediatore", vale a dire ha il diritto-dovere di interessarsi alle difficoltà altrui, di interporsi fra gli antagonismi, di creare dei legami ove i legami non esistono più o si sono indebolitiv.

Da quanto abbiamo detto, è evidente che, prima ancora di occuparsi della differenza linguistica tra originale e cultura ricevente, il traduttore deve sapere qual è il destinatario della sua opera di mediazione, il suo lettore modello. Questo può alterare notevolmente l'impostazione della sua strategia traduttiva.

  Facciamo un esempio con la traduzione intralinguistica. Francesco Alberoni scrive ogni lunedì sulla prima pagina del Corriere della sera un articolo nel quale dispensa consigli. Qual è il suo lettore modello? Sentiamo cosa dice in un suo pezzo:

  Che cosa dobbiamo fare quando la situazione in cui viviamo è insopportabile? [...] le delusioni ci spingono a rinchiuderci in noi stessi [...] Ci rifiutiamo di imparare e di studiare. [...] Il genio evita di farsi coinvolgere in queste sciocchezze e si concentra sull'unica cosa che contavi.

  Si direbbe che si rivolga a una persona frustrata, pigra e non molto colta. Il suo articolo non dice nulla che non sia ovvio. Si potrebbe riassumere in poche parole: «In caso di stress causato dalla forte competitività che caratterizza la nostra società, puntate sull'innovazione».

Se avesse scritto questa frase, non avrebbe tenuto conto del proprio lettore modello. Però, a ben vedere, il senso dell'articolo è proprio questo. Il merito di Alberoni sta nell'aver saputo tradurre, mediare tra la semplicità del messaggio e il bisogno di rassicurazione che avverte un impiegato, in metropolitana, il lunedì mattina prima di entrare nel proprio ufficio dove lo aspetta una routine poco gradevole. Il lettore che si lasci trascinare dalla strategia dell'autore del pezzo, dopo essersi sentito coinvolto (ma non offeso) da allusioni alla frustrazione, alla svogliatezza nei confronti dello studio, dopo cioè avere avuto prova dell'empatia di Alberoni per lui, riceve un colpo di incoraggiamento nel finale, che lascia trapelare che, addirittura, si può essere geni se si riesce a concentrarsi su un obbiettivo senza farsi distrarre.

  Fermo restando che un traduttore di testi di due lingue diverse ha alle spalle l'autore dell'originale, che ha fatto le sue considerazioni sul proprio lettore modello, va detto che non sempre lettore modello dell'originale e del testo tradotto coincidono. Ciò è dovuto sia alle differenze culturali tra due società (per esempio, nella società ricevente può essere poco sviluppato il ceto medio, al quale appartiene il lettore modello), sia alle differenze per quanto riguarda la politica editoriale, di cui il traduttore è quasi sempre strumento e quasi mai artefice.

  Sono argomenti che qui ci limitiamo ad accennare, ma che approfondiremo nella terza parte di questo corso, quella dedicata alla produzione.

  

Bibliografia

CASTELLI S. La mediazione. Teorie e tecniche. Milano, Cortina, 1996. ISBN 88-7078-391-X.

GINZBURG N. Lessico famigliare. Torino, Einaudi, 1972 [1963].

TREVARTHEN C. Sharing makes sense: intersubjectivity and the making of an infant's meaning. In Language Topics. Essays in Honour of Michael Halliday, a c. di R. Steele et al, Amsterdam, Benjamins, 1987.


i Ginzburg 1972, p. 9.
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ii Trevarthen 1987.
   indietro a ii

iii Castelli 1996, p. 63.
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iv Castelli 1996, p. 63.
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v Castelli 1996, p. 89.
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vi Corriere della sera, 18 settembre 2000.
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