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1. I codici linguistici: b) connotazione

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b) La Connotazione

L'interpretazione di un testo letterario obbedisce sempre a un metodo che è frutto della cultura nell'ambito della quale avviene l'interpretazione del testo. Così, la "selva oscura" dantesca, nel Novecento di Freud, viene interpretata come metafora della depressione nervosa: la malattia del secolo. La scuola storicistica in voga negli anni Cinquanta, invece, vedeva nella selva oscura il simbolo delle controversie politiche subite da Dante in gioventù. Questa seconda interpretazione è un simbolo, perché può essere fruita soltanto conoscendo le convenzioni dell'epoca in osservanza ai cui dettami è stata elaborata. Il simbolo è frutto di un'immedesimazione storicistica; la metafora, invece, è la linfa viva che trasuda dal tronco dei Classici.

La connotazione è l'aura di un testo. La posizione che occupa nella cultura di cui è espressione, la progenie di testi cui dà luogo, il vago e dubbioso cimento interpretativo che opera nei suoi lettori: tutto questo produce, al di fuori del testo, una selva di "valori aggiunti" che costituiscono il suo elemento "archeologico": quello non dominando il quale il traduttore letterario si troverà, di fronte al classico, in braghe di tela.

Nell'Odissea, una delle scene più significative è quella in cui Ulisse, seguendo le raffigurazioni incise sul suo scudo, illustra alla corte dei Feaci la caduta di Troia. In quel momento, Ulisse traduce per se stesso gli avvenimenti di cui, pure, è stato protagonista, comprendendo come, nel momento in cui l'esperienza diventa linguaggio, tutto diviene ricordo, e, quindi, "traduzione" di un'esperienza. Ogni opera letteraria è un'ermeneutica che va condivisa dal traduttore.

Nel secolo appena trascorso, i classici vertono tutti sul tema della reminiscenza. L'Ulisse di Joyce è un'opera archeologica per eccellenza. L'episodio della Biblioteca, col suo ripercorrere la storia della lingua inglese da Chaucher ai moderni, è un viaggio nella memoria collettiva che il traduttore deve avere il coraggio di introiettare come sfida, ma non di risolvere in una metodologia. Dai poeti siciliani a Laborynthus di Sanguineti, anche la lingua italiana ha conosciuto un suo percorso sincronico. In Francia, l'escursione va da Le Jeu de Robin et Marion a Jarry, con la sua Patafisica. In Germania, dai Minnesänger all'Alfred Döblin di Berlin Alexanderplatz. La connotazione, in sostanza, è una storia delle idee attraverso lo stile.

Ogni percezione ha una sua prospettiva. L'importante è non ridurre la metafora a simbolo. Chi si cimenti nell'arduo compito di tradurre, nel Parsifal di Wolfram von Eschenbach, il capitolo in cui il protagonista, assistendo alla cerimonia dell'ostensione del Sacro Graal, ascolta Amfortas passare in rassegna i nomi delle pietre preziose recate dalle ancelle, deve avere ben chiaro come, nel Medioevo del Sacro Romano Impero, esse rappresentino altrettante virtù dell'intelletto umano. Il topazio è l'intuzione del divino, lo smeraldo il cuore della fede, il rubino la prescienza dell'iniziato... Anche nel Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde esiste un elenco di pietre preziose; in questo caso, però, la loro connotazione non è certo di qualità metafisica. Le pietre medioevali sono idee fatte luminescenza, i gioielli di Wilde sono superbi ammenicoli visuali. Quella del Medioevo tedesco è una filosofia dell'apparire, laddove nel Decadentismo abbiamo un'estetica del sembrare. La connotazione dei due linguaggi è drammaticamente opposta.

Allo stesso modo, quando Dante, nel Convivio, definisce l'ispirazione come "Amor che nella mente mi ragiona", identificare questa "ragione" come "logos" sarebbe un grande abuso. Essa corrisponde, in inglese, a "perception", in francese a "vision", in tedesco ad "Einfühlung". È qualcosa che quasi si tocca con mano. Il Medioevo era connotato da codici visuali. I cicli di affreschi ostentati nelle pareti delle chiese costituivano il libro di testo sul quale veniva appreso il senso delle Sacre Scritture. La rappresentazione della realtà è, nel Medioevo, la suprema metafisica. Siamo alquanto lontani dal quel "discorso indiretto libero" su cui è costruita la letteratura del Novecento. La letteratura del Medioevo ignora la prospettiva; vale a dire, la coscienza. La letteratura del Novecento non conosce altro che la coscienza.

Dalla rivelazione del vero alla sua immaginazione, il percorso è scandito da sentieri che trovano la loro sintesi in una delle opere più irriducibilmente d'avanguardia che siano mai state concepite: il Tristram Shandy di Laurence Sterne. Nelle peripezie che portano il protagonista di questa autobiografia a nascere solo dopo quando il romanzo è quasi finito, ha grande parte la figura del medico prescelto dalla signora Shandy per vegliare sul suo parto. Il ritardo con cui questo personaggio presta la sua opera è decisivo per gli eventi successivi. Nel terzo capitolo, il dottore si affretta verso la gestante su di un "hobby horse". Nelle traduzioni italiane, lo si rende con "pony". Ma l'"hobby horse" è anche il cavallo di legno delle giostre, quel "caval de bois" cui Verlaine dedica una delle sue più sinistre poesie, facendo della giostra un simbolo dell'ossessività con cui l'uomo si crocifigge al proprio destino. È chiaro che Sterne, in questa maniera, intendeva irridere all'infantilismo per cui ogni individuo scova connotazioni metafisiche nel proprio destino.

Un altro esempio di connotazione difficoltosa: John Keats, in Hyperion, intende dar vita ad un corrispettivo moderno delle Metamorfosi di Ovidio. All'inizio del poema, il titano Saturno giace a terra, dopo che Giove lo ha sconfitto. "Deep in the shady sadness of a vale", dice Keats. "Deep" ha valore sia di "remoto" che di "profondo", inteso sia in senso diretto che nella sua figurata connotazione metafisica. "Sadness" è la resa inglese di quella "Melancholia" in cui Ovidio vede il carattere precipuo di Saturno. Del resto, la parola sassone "saldness" indica l'appartenza di un individuo agli "Aldi", la nobiltà di nascita. Dunque, in Keats, alla connotazione latina dell' "umor nero" ' la Melancholia ' si è sostituita quella di un carattere genetico predeterminato: la "saldness". La tristezza, nella cultura sassone, è un segno distintivo della nobiltà d'animo, come non poteva non essere in una cultura che alla propria indipendenza dall'Impero Romano aveva pagato il tributo di un completo isolamento culturale. Quindi, tradurre "sadness" con "fatto nobile dalla malinconia" non costituirebbe, connotativamente, un abuso. Rimane quel "shady". Strettamente parlando, si tratta di un derivato di "shadow": l'ombra, ma anche il riflesso del volto nello specchio, e il ricordo che i morti lasciano nella mente dei vivi. Rendere "shady" con "come il riflesso di un morto" costituisce certo una sovrainterpretazione, ma risolve un nodo di connotazioni inestricabile. Pensiamo di avere ormai raggiunto una sufficiente chiarezza? Al secondo verso si parla di "healthy breath of morn", dove "healthy" sta per "apportatore di salute", mentre "breath of morn" è il respiro. Il passaggio trarrà una connotazione desolata dalla consapevolezza di come Keats, qui, allude alla sua tubercolosi, i cui ascessi ciclici si andavano intensificando col progredire del giorno. Allora, quello "shady" è l'ombra del Keats morto che induce il Keats artefice a "trarre ancora il respiro", "breath of health", per assolvere agli obblighi impostigli dalla propria Ombra.

La vita interiore, insomma, costituisce il livello di connotazione più occulto, in un classico. Spesso, lo stilema in cui l'inconscio si esprime, è una figura ritmica. Raccontando la genesi de Il Corvo, Allan Poe ha delineato una metodologia dell'ispirazione del tutto paradossale, facendo coincidere la massima suggestività col più ferreo ' quasi meccanico ' rigore. Eppure, chi non collochi l'ossessività di quel "nevermore" pronunciato dall'uccello del malaugurio, insinuatosi di soppiatto nella neoclassica sala dove un nobile spirito piange l'amante precocemente scomparsa, nel panorama connotativo dell'innologia calvinista, con la sua regolare ricorrenza di avverbi composti, ad indicare l'irrevocabilità del fato, non coglierà il rintocco di campana insito in quel solenne richiamo. Né potrà avvertire quel senso di innaturalità, di deviazione dall'ordine cosmico, che nasce dall'aver fatto artefice di questa voce sacra la stupida attitudine mimetica di un corvo. Tradurre "nevermore" con "mai più" significa scindere l'avverbio, e rendere il quadrisillabo una sonante ed asseverativa perorazione. "Giammai" è arcaico ed insincero. L'unica possibilità è aprirsi la strada attraverso l'imitazione di un modello connotativamente analogo. In A Zacinto Foscolo, nel "né più mai" iniziale, riassume un lungo monologo interiore la cui connotazione è la ridondanza; solo che, mentre Poe ricorre all'intensificazione progressiva, per accumulo, Foscolo inizia la poesia laddove il rimuginare del dolore si è già stemperato nell'immanenza della contemplazione. Rendendo "nevermore" con "né più mai" si perde un effetto drammaturgico, ma l'urgenza della connotazione ne trae ulteriore slancio.

L'arte di connotare, dunque, obbedisce a due parametri: la memoria storica e la coerenza con la drammaturgia interiore dell'autore. Si tratta di due direzioni opposte, e mai coincidenti. L'una è sincronica, l'altra diacronica. Una colloca un fenomeno nell'evoluzione della lingua e della cultura, l'altra ne isola il significato irripetibile. La scelta del parametro da privilegiare, in una traduzione efficace, non deve prescindere dalle necessità, qualora si tratti di un testo poetico, della "lettura verticale". Le assonanze, le rime, i rimandi interni, sono, in effetti, l'elemento connotativo più importante, in un testo. L'iscrizione che Dante legge sulla volta dell'Inferno: "Per me si va tra nella città dolente / Per me si va nell'eterno dolore / Per me si va tra la perduta gente" crea un nesso verticale a potenziamento progressivo tra "dolente", "gente" e "dolore" che, attraverso la ridondanza, riassume in sé la materia dell'intera cantica. Il traduttore, in questo caso, deve assolutamente trovare una successione assonante di parole, in verticale, capace di rendere, nella propria lingua, lo stesso effetto. Allo stesso modo, in Hyperion, Keats, nei versi tre e quattro, crea un nesso verticale tra "eve's one star" e "quiet as a stone" tramite il quale si suggerisce una connotazione paradossale: l'assonanza tra una stella ed una pietra, grazie alla quale s'insinua nella coscienza del lettore la sensazione che la stella sia morta, eppure la sua luce giunga ancora sulla terra. In questa simbologia si annida l'aura dell'intero poema. Non renderla significherebbe spostare l'intero suo asse connotativo.

Il problema della connotazione, dunque, ha a che fare con lo spazio mentale che un testo viene ad occupare nella coscienza del lettore. Il traduttore che ne alteri la topografia, avrà compiuto l'abuso peggiore possibile. In fondo, Gertrude Stein, quando dice "una rosa è una rosa è una rosa", vuole esprimere semplicemente questa evidenza di senso che nasce da una corretta strategia connotativa, secondo la quale il rispetto di un testo è la coscienza degli spazi dentro cui si svolge il suo dramma. La battuta finale di Amleto, "il resto è silenzio", apre una finestra su quello stesso tempo cosmico sulla cui immensità Amleto, nel suo celebre monologo, indugia. Un traduttore italiano degli anni Settanta rese "this is the question" con "tutto qui?" Ecco che cosa succede a non avere ben chiara la questione della connotazione...


 



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