«Mi sto convincendo che il mondo vuole dirmi
qualcosa, mandarmi messaggi, avvisi segnali.» 1.
Benjamin Lee Whorf ha studiato varie lingue che non fanno
parte del gruppo indoeuropeo, e che non rientrano nemmeno tra le poche
lingue non indoeuropee con cui la civiltà occidentale entra a contatto
relativamente spesso, come il turco o il finlandese o l'estone o
l'ungherese. Questi studi gli hanno dato modo di capire che l'espressione
linguistica, ma anche il contenuto stesso, dei pensieri sono fortemente
influenzati dalla lingua in cui vengono espressi, che non esiste un
pensiero psichico a priori, unico e universale, che può trovare espressioni
diverse nelle varie lingue e nei diversi individui.
Una delle lingue studiate da Whorf è il hopi, lingua amerindia
del territorio attualmente occupato dall'Arizona.
Come spesso siamo abituati a notare in questo corso, non c'è
come il contatto con una cultura (o lingua) diversa per rendersi conto
delle caratteristiche della propria. Caratteristiche che, in quanto ovvie
e sempre esistite nelle nostre vite, tendiamo a dare per scontate,
pregiudicando in modo grave le nostre possibilità di comprensione del mondo.
A noi sembra che la suddivisione del mondo in concetti e
l'attribuzione di parole ai concetti sia "naturale", anzi spesso non ci
poniamo il problema se lo sia.
Noi spezzettiamo la natura, la organizziamo in concetti e attribuiamo
significati nel modo in cui lo facciamo perlopiù perché abbiamo sottoscritto
un contratto in cui c'impegniamo a organizzarla in questo modo, contratto
che vale in tutta la nostra comunità linguistica ed è codificato negli
schemi della nostra lingua. Il contratto, naturalmente, è implicito e non è
dichiarato, MA LE SUE CONDIZIONI SONO ASSOLUTAMENTE OBBLIGATORIE2.
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Il punto è proprio che questo contratto lo sottoscriviamo
senza averne nessuna consapevolezza finché non ci scontriamo con una realtà
linguistica e/o culturale diversa, però non siamo in grado di dire
assolutamente nulla se non aderendo alla catalogazione dei dati di realtà
prevista dal contratto stesso.
Di conseguenza, abbiamo l'illusione di essere liberi di
descrivere la natura con la massima imparzialità, mentre già il modo in cui
la interpretiamo è fortemente deformato dalla lingua in cui siamo stati
abituati a concepire il mondo. Forse gli unici momenti di libera
interpretazione della realtà risalgono alle nostre esperienze di pensiero
preverbale.
Anche Whorf sostiene che una stessa stimolazione da parte del
mondo esterno non porta a identiche raffigurazioni in due osservatóri. Le
due raffigurazioni possono essere soltanto simili, ma a patto che la loro
formazione linguistica sia simile o possa in qualche modo essere commisurata.
Uno dei motivi per cui questo principio della relatività
percettiva non ci appare subito evidente è da ricercarsi nel fatto che
quasi tutte le lingue con cui entriamo a contatto sono "dialetti"
indoeuropei e hanno spesso, soprattutto per quanto riguarda la terminologia
scientifica, una solida base comune nelle lingue latina e greca. Come
vedremo tra poco, basta un raffronto con alcune lingue di origine
totalmente diversa per renderci conto di quanto diamo per scontato senza
accorgercene.
Cominciamo dalle categorie grammaticali essenziali: nomi e
verbi. Fin dai primi anni di scuola siamo abituati a capire che esistono
nomi e verbi e quali sono le loro differenze e, anche qualora non ci si
addentri in ulteriori studi di carattere linguistico, questa distinzione
fondamentale resta scontata per tutta la nostra vita. Ma la natura, in sé,
non è costituita in modo tale da esigere l'uso di classi come «come» o
«verbo» per poter essere descritta.
Nella lingua hopi, per esempio, gli eventi vengono classificati
in base alla loro durata, e tutti gli eventi di durata breve non possono
essere altro che verbi: lampo, onda, fiamma, meteora, sbuffo di fumo,
pulsazione. Gli eventi più lunghi sono invece considerati nomi.
Whorf ci parla poi della lingua dell'isola di Vancouver, il
nootka, dove esiste una sola "categoria grammaticale", una sola classe di
parole per descrivere tutti i tipi di eventi.
Anche sul piano dello spettro semantico le variazioni sono
notevoli. In hopi una sola parola può indicare l'insetto, l'aereo e
l'aviatore, e ciò non comporta alcun problema per la popolazione pueblo
che la parla. A noi questo spettro semantico sembra esageratamente
dilatato, ma la stessa osservazione fanno sulle nostre lingue gli eschimesi
a proposito della parola «neve». Siamo costretti a descrivere con questa
parola tantissimi fenomeni diversi, la neve che cade, la neve già caduta,
la neve ghiacciata, la neve bagnata, la neve sollevata dal vento:
Per un eschimese questa parola onnicomprensiva sarebbe quasi impensabile;
direbbe che neve che cade, neve bagnata e così via sono diverse dal punto
di vista sensoriale e operativo3.
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D'altra parte, gli aztechi si spingono ancora di più
nella direzione opposta, poiché hanno una sola parola per indicare
«ghiaccio», «freddo» e «neve». Questa diverse classificazioni linguistiche
dei fenomeni del mondo hanno, secondo Whorf, un'influenza diretta sul modo
in cui finiamo per cercare e rilevare le sfumature nella natura stessa. Per
noi, per un eschimese e per un azteco, uno stesso fenomeno della natura può
significare tre cose diverse, lo vediamo con lenti deformanti diverse.
In hopi per esempio, dove non esistono i tempi grammaticali che
abbiamo noi, esiste però il tempo psichico: esistono i concetti di
aspettativa, di generalizzazione, di evento riferito. Lo vediamo da questa
illustrazione, tratta dal saggio di Whorf:
Come si vede, più enunciati inglesi corrispondono a un singolo
enunciato hopi, e viceversa. Riflettendo su tale diversità, ci accorgiamo
che il mondo che nel nostro quotidiano diamo per scontato è in realtà
soltanto una delle possibili interpretazioni dello stesso mondo. La cultura
(e la lingua come strumento di una cultura) plasma il nostro modo di
concepire il mondo, ed importante, specialmente per un traduttore, tenere
conto di tali differenze tra culture e non dare mai per scontato nulla,
cercando di offrire al lettore, tramite i testi tradotti, una finestra più
ampia possibile sulle altre culture dell'universo.
Riferimenti Bibliografici
CALVINO I. Se una notte d'inverno un viaggiatore, Torino, Einaudi, 1979.
WHORF B. L. Language, Thought, and Reality. Selected Writings of Benjamin Lee Whorf.
Cambridge (Massachusetts), The M.I.T. Press, 1967 (1956).
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