«así me llamaba coherentemente [...], sin el
acento correcto del apellido pero también, mas
extraño, con mi original y casi olvidado nombre, yo
renuncié a ese nombre pero lo recuerdo, es el mío»1.
"as [...] clearly referred to me, without the
accent on the surname but also, stranger still, with
my original and almost forgotten name, I renounced
that name but remember it, it's mine"2.
Esaminando la generazione del testo, ci siamo resi conto che si tratta di una serie di minuscoli (e perlopiù impercettibili e soprattutto non percepiti dal traduttore mentre lavora) processi traduttivi che continuano a fare la spola tra la mappa mentale e la mappa verbale.
A un livello esiste il ragionamento, il linguaggio mentale, che produce, più che enunciati, singoli collegamenti a parole. A un livello più alto esiste una pianificazione sintattica che si occupa di trovare una struttura coerente per le parole che sono state provvisoriamente generate, sia per esprimere relazioni precise tra ciò che è simboleggiato da queste parole, sia per creare enunciati che siano rispondenti alle norme sintattiche della cultura della lingua in cui avviene la codificazione.
Uno dei motivi ricorrenti della traduttologia è inseguire la definizione di «unità di traduzione», quel magico segmento di testo che ogni traduttore per istinto sceglie come lunghezza adatta a tale complessa elaborazione mentale e verbale. Kirsten Malmkjær, nella Routledge Encyclopedia of Translation Studies, fa il punto della situazione.
Innanzitutto la lunghezza del segmento di testo (o di senso) utilizzato come unità di lavorazione varia a seconda del grado di competenza linguistica (e culturale, aggiungiamo noi) dell'attualizzatore, spaziando dalla singola parola a interi periodi. E la leggibilità di un testo tradotto dipende dalla lunghezza dell'unità di traduzione usata: più è corta, meno il testo è leggibile.
Se però la generazione del testo avviene nel modo descritto dalla Incremental Production Grammar3, entrano in gioco la componente dell'input derivante dal lessico e la strategia incrementale. In questa prospettiva, non so quanto senso abbia cercare l'unità traduttiva. Probabilmente esistono tante unità traduttive diverse quante sono le fasi del processo, sia per quanto riguarda la decodifica, sia per quanto riguarda la ricodifica. Per esempio, la micropianificazione ha probabilmente unità traduttive molto minori della macropianificazione, e le due lunghezze diverse di unità traduttiva sono impiegate simultaneamente (a livello di mappa mentale).
Nel caso della traduzione intersemiotica, forse l'unità traduttiva può essere soltanto il testo nel suo insieme. Pensiamo, per esempio, a un'opera come Guernica di Pablo Picasso. Intenderla come traduzione significa pensare alla battaglia di Guernica come a un testo (umano? storico?), e al quadro di Picasso come a una traduzione pittorica. Sarebbe solo una sminuente impostazione didascalica quella che ci potrebbe indurre a scomporre l'opera d'arte in singoli elementi compositivi che raffigurano questo o quell'aspetto della battaglia: l'opera d'arte è tale per come è nell'insieme, per come nell'insieme esprime il dolore, la rabbia, l'impotenza, la confusione, il lutto, la disperazione.
D'altra parte vi è chi, come il traduttologo russo Barhudàrov, fa presente che anche il singolo fonema può essere unità traduttiva, se si prende come esempio di processo la traslitterazione. Vediamo un esempio:
russo-italiano |
russo-inglese |
russo-francese |
Чайковский |
Чайковский |
Чайковский |
Čajkovskij |
Chaikovsky |
Tchaïkovski |
In questa traslitterazione del nome del compositore russo in tre diverse lingue si nota, per esempio, che il fonema iniziale /t∫/, a seconda delle attualizzazioni, è reso rispettivamente con Č, Ch, Tch, in funzione delle norme di traslitterazione (o delle regole di pronuncia) vigenti nelle diverse culture riceventi. Indubbiamente quindi Barhudàrov ha ragione per quanto riguarda la traslitterazione.
Senza forzare i casi estremi, e cercando di portare casi più comuni, proviamo a vedere con un esempio concreto, tratto dal libro classico della psicolinguistica di Levelt Speaking. From Intention to Articulation. Supponiamo di tradurre, in questo momento non importa da quale lingua, e che il risultato finale sia la frase inglese:
the child gave the mother the cat4
In una fase sono stati individuati i tre elementi chiave della frase, i tre referenti, come li chiama Levelt: child, cat, mother. Non è assolutamente detto che la mente elabori i tre referenti nell'ordine in cui saranno espressi, ma è probabile che siano tra i primi elementi ad affiorare dalla coscienza dell'attualizzatore.
Nel momento in cui il soggetto, dopo avere scelto tra i circa trentamila lemmi a sua disposizione, giunge alla parola child, la parola gli dischiude le proprie caratteristiche di combinazione sintattica (regole, uso). Nel caso specifico, la parola child è un nome, ha una forma plurale, ma qui è singolare, e regge un verbo in terza persona singolare.
Nel contempo, scelto il referente, vengono attivate delle subroutine parallele che hanno lo scopo di indagare l'eventuale possibile presenza di articoli, preposizioni e valori parametrici. Nel nostro caso, viene appurato che il referente è già noto al lettore modello, e che perciò gli va anteposto un articolo determinativo. Nel caso della lingua inglese il processo si conclude, ma non avverrebbe così per altre lingue come il francese o l'italiano o lo spagnolo, dove l'articolo determinativo presenta un paradigma differenziato a seconda del genere e del numero. Nel caso di lingue che, come il russo, non hanno articolo, il procedimento sarebbe ancora diverso.
Dopo avere stabilito che the child ha una determinata funzione all'interno della futura frase, e che la sua azione si esprime con il verbo to give, l'individuazione di questo verbo fa affiorare le sue proprietà sintattiche: regge un complemento oggetto (la cosa che viene data) e un complemento indiretto (la persona a cui viene data la cosa). Quindi l'individuazione di questa parola, con relative proprietà, manda un feedback all'attualizzatore sul modo in cui l'enunciato può continuare.
Da questo esempio osservato di sfuggita si ha un'idea della quantità di quanti processi traduttivi mentale-verbale-mentale comporti anche solo la formulazione di una frase semplicissima: dovendo parlare di quali unità traduttive siano impiegate nel processo, abbiamo senz'altro una fase in cui l'unità traduttiva è la singola parola child, e altre via via superiori che giungeranno a coincidere con l'intero enunciato. Forse l'enfasi della discussione dovrebbe spostarsi dall'individuazione dell'unità traduttiva per eccellenza allo studio delle fasi del processo traduttivo e delle varie unità coinvolte.
Riferimenti Bibliografici
BARHUDAROV L. Urovni jazykovoj ierarhii i perevod, in Tetradi perevodčika, n. 6, 1969, p. 3-12.
BARHUDAROV, L. The problem of the unit of translation, in Zlateva, P., a cura di, Translation As Social Action: Russian And Bulgarian Perspectives, London, Routledge, 1993, p. 39-46.
KEMPEN G. Language generation systems, in I. Batori, W. Lenders, W. Putschke, a cura di, Computational Linguistics: An International Handbook On Computer Oriented Language Research And Applications, Berlin, De Gruyter, 1988.
LEVELT W. J. M. Speaking. From Intention to articulation, Cambridge (Massachusetts), The MIT Press, 1993 (edizione originale 1989). ISBN 0-262-62089-8.
MALMKJÆR K. Unit of translation, in Routledge Encyclopedia of Translation Studies, a cura di M. Baker, London, Routledge, 1998, ISBN 0-415-09380-5, p. 286-288.
MARÍAS J. Negra espalda del tiempo, Punto de lectura, 2000 (edizione originale 1998), ISBN 84-663-0007-7.
MARÍAS J. Dark Back of Time, New York, New Directions, 2001 (translated by Esther Allen), ISBN 0-8112-1466-4.
1 Marías 200, p. 139.