a) La denotazione
Raccontare ed alludere sono due processi linguistici differenti: nel primo
caso, si definisce un'ambienza, uno scenario dentro al quale sia possibile
collocare personaggi e suggestioni; nel secondo, ci si affida alle competenze
culturali del lettore per stabilire con lui un gioco di corrispondenze tra
attesa e soddisfacimento.
L'allusione implica sempre una rarefazione progressiva del messaggio.
In pratica: prima si crea un'attesa, poi la si delude. Nel Pozzo e il
Pendolo di Poe, l'allusione viene attuata attraverso i suoni;
dapprima, il tramestio smorzato ed il progressivo allontanamento dei topi dalle
gambe del condannato legato alle catena, inducono un senso di sollievo; poi,
l'incombere sempre più dappresso dell'ossessivo ticchettio
del pendolo delinea uno scenario di incubo tanto più ossessivo in quanto
'in controtendenza scenica': qui, la scissione tra drammaturgia ed
emozioni assume tinte demoniache. Allo stesso modo, nel Processo, Kafka
risolve ogni aspetto metafisico del dramma nella prima battuta: "K. doveva
avere fatto qualcosa..."; il resto, è solo messa in scena del non
senso, tanto più accurata in quanto deprivata, da quella terribile
captatio principii iniziale, di ogni significato.
Quel 'doveva', insomma, nella psiche di chi legge, prende subito
caratteri di fuoco; diventa un doveva. Come dire che lo stare al mondo,
l'occupare non solo una posizione etica, ma anche soltanto fisiologica,
significa, per ognuno di noi, un peccato originale sotteso a tutto il nostro
esistere...
Ed ecco un primo paradosso: la denotazione, qualora venga perseguita da uno
scrittore dotato di chiarezza metafisica (Dostoevski, Conrad, Camus, piuttosto
che Flaubert o Thomas Mann, per non citare che opposizioni imprevedibili) apre
squarci di abbagliante nitore sulle implicazioni etiche dell'esistere. Il
fare accadere, insomma, nei tempi giusti, con la progressione giusta, è
un atto di accusa al creato molto più efficace di qualsiasi delirio
nichilista. L'artista distoglie l'occhio sdegnato, e questo suo non
essere presente a ciò che racconta diventa, paradossalmente, consonanza
umana.
Un caso limite è quel passaggio della Commedia dantesca in cui
si parla della morte per fame di Ugolino della Gherardesca: "poscia,
più che il dolore, poté il digiuno". Il sospetto che Ugolino
abbia mangiato i propri figli morti di fame si accampa senza speranza nella
mente del lettore; eppure, Borges ha dedicato diverse pagine a dimostrare come
questa sfumatura perversa, a Dante, non sia nemmeno passata per la testa. Dante
ha denotato la morte di Ugolino per fame; noi lettori moderni, a causa
dei pregiudizi di cui è intessuta la nostra visione del Medioevo (e che
ne fanno, per converso, il fascino) connotiamo il fatto che Ugolino abbia
mangiato i propri figli. Del resto, questa transizione, nel saggio di Borges,
non è espressa; l'ho connotata io. Definire, un traduttore
'moderno', nell'ambito di questa controversia, da che parte
debba stare, significa scrivere un vero e proprio manifesto etico
dell'atto del tradurre.
Riassumendo: la denotazione persegue il mito dell'oggettività,
la funzione espressiva della percezione pura. Siccome l'osservazione del
reale è una funzione del punto di vista - unico parametro
'etico' possibile - ne deriva che la connotazione sottende un
giudizio sulla realtà più spietato di qualsiasi allocuzione.
Per un traduttore, la denotazione è terra di tranelli, visto che
comporta l'accettazione di un'ambiguità tra senso e
significato capace di produrre il massimo perturbamento. È famoso quel
detto dei Sofisti: "Epimenide il cretese sostiene che tutti i cretesi sono
bugiardi". L'unico modo per venirne fuori è dissociarsi. Al
tema della dissociazione, Heine ha dedicato una poesia: Der
Doppelgänger: il Sosia. Un amante respinto cammina sotto la luna;
passa sotto la casa dell'amata di un tempo; occhieggia le finestre, e vede
il suo Sosia, il se stesso di allora, vivere la sua breve ed illusoria vita
felice con l'amata. Tutto sembra solo serenamente masochistico. In
realtà, la scelta della denotazione pura crea un gioco di specchi
vertiginoso. La luna è "bleiche Geselle", la "compagna
pallida" del poeta. La luna si specchia nelle finestre; i suoi raggi
illuminano Der Doppelgänger, che, in Tedesco, oltre che Sosia, è
anche Ombra. "Geselle" significa anche "allievo",
"garzone". Il poeta, dunque, in quanto maestro del
"Geselle", della Luna - suo riflesso, come Ombra, nel cammino
verso la casa di un tempo - è allucinazione del poeta di un tempo
(ma è davvero, quello "di un tempo?") ovvero l'amante
felice: prefigurazione, nella mente di un folle, del cammino senza redenzione
che lo aspetta, dopo l'effimera felicità. Tutto questo, è
'interpretazione'? No; in quanto semplice scenario, definizione
sensoriale dello spazio dato, resta denotazione allo stato puro: gioco in cui
l'ambiguità del linguaggio poetico tocca il livello massimo.
Quando si va a tradurre tutto questo, sono guai. L'unica
possibilità è la fuga nella reiterazione: la Luna, dunque,
è la "pallida amante del poeta", "maestro delle
ombre". Abbiamo connotato? Piuttosto, abbiamo mutato il 'teatro
interiore' della scena, con conseguente ampliamento del
'campo'. L'operazione è illegittima, ma espressiva.
Passa attraverso l'immaginazione. Peccato che, così, ci sfugga un
particolare: in Tedesco, la luna è un maschietto: Der Mond.
"Geselle", significa anche "giramondo"; dunque: la luna
è il poeta girovago, senza patria. L'allieva del poeta, insomma,
diserta le lezioni del poeta-maestro. La poesia si rivela, alla fine, anche
una sottile irrisione verso i luoghi comuni del poeta-vate, alla Goethe...
Per questa volta, una bella nota a pie' di pagina non ce la leva nessuno.
Pensate che il problema esista solo nelle lingue straniere? Quando la Monaca
di Monza viene avvicinata dal bel giovane che le farà infrangere il voto
di castità, che cosa ci autorizza a supporre che "la sventurata
rispose" di sì. Ciò che Manzoni ci ha raccontato, della
lussuriosa religiosa, fino a quel punto. Allora Manzoni è Epimenide il
cretese; lo stesso è qualunque traduttore.
Nel Finnegan's Wake, Joyce ha cercato di trarsi d'impaccio
sospendendo ogni distinzione tra percezione e fenomeno. Tutti sanno che "i
fiumi scorrono"; pochi che, sulla pagina scritta, il fiume è sempre
un "riverrun": uno "scorrefiume"; che non vuol dire "il
corso di un fiume"; infatti, a differenza di quello, il
"riverrun" non occupa alcuno spazio scenico. Esso è pura
azione, denotazione pura.
Viene in mente la lapide che Stendhal, vero profeta della denotazione,
dettò per se stesso: "visse, scrisse, amò". Il
traduttore si avvicina tanto più alla denotazione - vale a dire:
traduce - quanto più si avvicina al puro agire. Nel De
Brevitate Vitae, Seneca sostiene che la vita non è breve, ma
diventa tale perché noi facciamo cattivo uso del tempo. "Exigua
parte est vitae qua vivimus": dice, citando Virgilio; "ceterum quidem
omne spatium non vita, sed tempus est". Ora: quando si impara il Latino, a
scuola, ci si affanna a far coincidere con l'ablativo semplice tutta una
ridda di complementi 'moderni': tempo determinato, stato in luogo,
condizione, ecc. ecc., laddove i Latini coglievano la denotazione sublimemente
ambigua di un ablativo assoluto; vale a dire: "ciò che è
così, né può essere altrimenti". Dunque: "pars
vitae qua vivimus" è lo spazio della vita che ci è dato;
fuori di essa, si muove il tempo infinito, che a noi rimane, proprio in quanto
siamo vivi, non percepibile. La "vita" consiste, allora, nel renderci
possibile percepire questo "tempus". Non c'è male, come
potenza filosofica della denotazione pura! Volete un esercizio da far
"tremare le vene e i polsi"? Provate a far passare tutto questo
discorso in Italiano, rimanendo nei limiti della denotazione...
Alle volte, la denotazione può investire l'intera struttura di
un romanzo. Il caso limite è costituito dall'Uomo senza
qualità di Musil, la cui 'trama' è l'Azione
Parallela: i preparativi con cui alcuni alti funzionari dell'Impero
Asburgico si preparano a festeggiare i cinquant'anni di regno di Francesco
Giuseppe. Per i personaggi coinvolti nel trionfalistico progetto, l'Azione
Parallela è l'azione è basta. Per chi è, dunque,
parallela? Per Musil, in quanto osservatore del mondo del proprio stesso
romanzo, che, non per niente, comincia con la descrizione di una bella giornata
di sole su Vienna realizzata utilizzando il linguaggio freddo e
'scientifico' della meteorologia, a suon di isobare e paralleli...
La denotazione, qui, diventa, allo stesso tempo, elisione attraverso
l'enfatizzazione. Il punto di vista iniziale è quello cosmico; la
prospettiva del racconto, al suo interno, dunque diventa quella di una campana
di vetro: la Vienna artificiale di Francesco Giuseppe, dentro cui alcune cavie
del biologo-Musil compiono i loro insensati rituali. Se, quando si traduce, non
si riesce a denotare tutto questo, il senso di divertimento metafisico se ne va
sul battito d'ali di una farfalla: quello capace, secondo la Meteorologia,
di scatenare tempeste ai lati opposti dell'orbe terracqueo...
La poesia arcaica costituisce un valido esercizio di denotazione, per il
traduttore moderno. In essa, l'unica maniera per denotare qualcosa
è la metafora: vale a dire, la relazione, sufficiente ma non necessaria,
tra qualità incommensurabili di oggetti differenti. Così, nei
canti dell'Edda islandese, l'aria è "la casa del
vento"; le aringhe sono "frecce del mare", la barba è
"il bosco della mascella", la panca "albero da sedere", la
birra "marea della coppa", i denti sono "rupi delle parole",
il cuore è "la dura ghianda del pensiero", ecc. ecc. Ancora una
volta, la denotazione è l'arte di rappresentare pittoricamente
l'agire di un ente sopra l'universo mondo, attraverso le
virtù dell'immaginazione interiore. Abbiamo denotato l'atto
del tradurre?
In sintesi, potremmo definire la denotazione un atto allusivo che aspira alla
connotazione, senza mai risolvervisi. È essenziale, per un traduttore,
rispettare questo pudore del testo. I Greci dicevano che la parola poetica
è "pan kai en": il tutto nei limiti dell'Uno. Ne nasce la
necessità di possedere a livello subliminale l'intera drammaturgia
di un testo, prima di tradurlo. Vivere nei parametri della sua drammaturgia,
prima di mettervi mano; rendere la drammaturgia 'atto espressivo'.
Nel traduttore, il tempo dell'opera diventa spazio.
Nel Paradiso di Dante, Dio viene denotato come "la gloria di
colui che tutto move"; essa "per l'universo penetra e
risplende". Dio, dunque, è 'tempo' e, come tale,
'dramma'. Nell'Inferno, Egli 'move' le passioni,
come storia; nel Purgatorio, 'penetra il tempo', mettendo a frutto
la storia di ogni individuo in funzione dell'eternità; nel
Paradiso, 'risplende', avendo ormai liberato dal tempo le anime da
Lui illuminate. La prima terzina del Paradiso denota, insomma, l'intera
Commedia. Abbiamo scoperto il 'fulcro denotativo' del poema.
Ora l'atto del tradurre diventa legittimo.
Il senso delle cose è insito nelle cose, come nella ghianda è
insita, secondo Goethe, l'intera quercia. Nel finale del Faust,
"Alles Vergaengliche ist nur ein Gleichnis": dice Goethe. È
l'inno alla denotazione. Bene: come ti rende questo passaggio finale del
Faust, un celebre traduttore? "Tutto il Fuggente, non è che
Simbolo..." "Simbolo", Gleichnis? Etimologicamente, significa
"ciò che assomiglia a qualcos'altro":
"analogia". Il termine "Simbolo" connota,
"Gleichnis" denota. Infatti, qual è il significato primario
sotteso ad ogni parola, ogni ente: ciò che conferisce a tutto ciò
che per merito suo viene definito, la sua legittimità? Goethe non lo sa:
il suo traduttore, sì, visto che incrosta sulla terribile nudità
dell'originale un sovrastrato cattolico-gesuitico dalla notoria potenza,
storicamente, nel tessuto culturale italiano... Sapete come si salva, Faust?
Perché gli angioletti, nudi e vezzosi, distraggono Mefistofele con le
grazie dei loro glutei androgini... Anch'essi, sono "simboli"?
Il nemico peggiore, per un traduttore, è la paura
dell'horror vacui. Il rispetto della denotazione è il
cimento, per lui, più arduo e perturbante... Il più necessario.
Come dice Borges in una sua tremenda poesia, il pensiero più cupo, per
uno scrittore, è il non sapere, quando descrive una tigre, se ci sia,
dietro le parole, la Tigre archetipa, a legittimare il suo discorso... La
traduzione è la ricerca, dentro di sé, di questa tigre
originaria.
b) La Connotazione
L'interpretazione di un testo letterario obbedisce sempre
a un metodo che è frutto della cultura nell'ambito della quale
avviene l'interpretazione del testo. Così, la "selva
oscura" dantesca, nel Novecento di Freud, viene interpretata come metafora
della depressione nervosa: la malattia del secolo. La scuola storicistica in
voga negli anni Cinquanta, invece, vedeva nella selva oscura il simbolo delle
controversie politiche subite da Dante in gioventù. Questa seconda
interpretazione è un simbolo, perché può essere fruita
soltanto conoscendo le convenzioni dell'epoca in osservanza ai cui dettami
è stata elaborata. Il simbolo è frutto di un'immedesimazione
storicistica; la metafora, invece, è la linfa viva che trasuda dal tronco
dei Classici.
La connotazione è l'aura di un testo. La posizione
che occupa nella cultura di cui è espressione, la progenie di testi cui
dà luogo, il vago e dubbioso cimento interpretativo che opera nei suoi
lettori: tutto questo produce, al di fuori del testo, una selva di "valori
aggiunti" che costituiscono il suo elemento "archeologico":
quello non dominando il quale il traduttore letterario si troverà, di
fronte al classico, in braghe di tela.
Nell'Odissea, una delle scene più
significative è quella in cui Ulisse, seguendo le raffigurazioni incise
sul suo scudo, illustra alla corte dei Feaci la caduta di Troia. In quel
momento, Ulisse traduce per se stesso gli avvenimenti di cui, pure, è
stato protagonista, comprendendo come, nel momento in cui l'esperienza
diventa linguaggio, tutto diviene ricordo, e, quindi, "traduzione" di
un'esperienza. Ogni opera letteraria è un'ermeneutica che va
condivisa dal traduttore.
Nel secolo appena trascorso, i classici vertono tutti sul tema
della reminiscenza. L'Ulisse di Joyce è un'opera
archeologica per eccellenza. L'episodio della Biblioteca, col suo
ripercorrere la storia della lingua inglese da Chaucher ai moderni, è un
viaggio nella memoria collettiva che il traduttore deve avere il coraggio di
introiettare come sfida, ma non di risolvere in una metodologia. Dai poeti
siciliani a Laborynthus di Sanguineti, anche la lingua italiana ha
conosciuto un suo percorso sincronico. In Francia, l'escursione va da
Le Jeu de Robin et Marion a Jarry, con la sua Patafisica. In Germania, dai
Minnesänger all'Alfred Döblin di Berlin Alexanderplatz.
La connotazione, in sostanza, è una storia delle idee attraverso lo
stile.
Ogni percezione ha una sua prospettiva. L'importante
è non ridurre la metafora a simbolo. Chi si cimenti nell'arduo
compito di tradurre, nel Parsifal di Wolfram von Eschenbach, il capitolo
in cui il protagonista, assistendo alla cerimonia dell'ostensione del
Sacro Graal, ascolta Amfortas passare in rassegna i nomi delle pietre preziose
recate dalle ancelle, deve avere ben chiaro come, nel Medioevo del Sacro Romano
Impero, esse rappresentino altrettante virtù dell'intelletto umano.
Il topazio è l'intuzione del divino, lo smeraldo il cuore della
fede, il rubino la prescienza dell'iniziato... Anche nel Ritratto di
Dorian Gray di Oscar Wilde esiste un elenco di pietre preziose; in questo
caso, però, la loro connotazione non è certo di qualità
metafisica. Le pietre medioevali sono idee fatte luminescenza, i gioielli di
Wilde sono superbi ammenicoli visuali. Quella del Medioevo tedesco è una
filosofia dell'apparire, laddove nel Decadentismo abbiamo
un'estetica del sembrare. La connotazione dei due linguaggi è
drammaticamente opposta.
Allo stesso modo, quando Dante, nel Convivio, definisce
l'ispirazione come "Amor che nella mente mi ragiona",
identificare questa "ragione" come "logos" sarebbe un grande
abuso. Essa corrisponde, in inglese, a "perception", in francese a
"vision", in tedesco ad "Einfühlung". È qualcosa
che quasi si tocca con mano. Il Medioevo era connotato da codici visuali. I
cicli di affreschi ostentati nelle pareti delle chiese costituivano il libro di
testo sul quale veniva appreso il senso delle Sacre Scritture. La
rappresentazione della realtà è, nel Medioevo, la suprema
metafisica. Siamo alquanto lontani dal quel "discorso indiretto
libero" su cui è costruita la letteratura del Novecento. La
letteratura del Medioevo ignora la prospettiva; vale a dire, la coscienza. La
letteratura del Novecento non conosce altro che la coscienza.
Dalla rivelazione del vero alla sua immaginazione, il percorso
è scandito da sentieri che trovano la loro sintesi in una delle opere
più irriducibilmente d'avanguardia che siano mai state concepite:
il Tristram Shandy di Laurence Sterne. Nelle peripezie che portano il
protagonista di questa autobiografia a nascere solo dopo quando il romanzo
è quasi finito, ha grande parte la figura del medico prescelto dalla
signora Shandy per vegliare sul suo parto. Il ritardo con cui questo personaggio
presta la sua opera è decisivo per gli eventi successivi. Nel terzo
capitolo, il dottore si affretta verso la gestante su di un "hobby
horse". Nelle traduzioni italiane, lo si rende con "pony". Ma
l'"hobby horse" è anche il cavallo di legno delle
giostre, quel "caval de bois" cui Verlaine dedica una delle sue
più sinistre poesie, facendo della giostra un simbolo
dell'ossessività con cui l'uomo si crocifigge al proprio
destino. È chiaro che Sterne, in questa maniera, intendeva irridere
all'infantilismo per cui ogni individuo scova connotazioni metafisiche nel
proprio destino.
Un altro esempio di connotazione difficoltosa: John Keats, in
Hyperion, intende dar vita ad un corrispettivo moderno delle
Metamorfosi di Ovidio. All'inizio del poema, il titano Saturno
giace a terra, dopo che Giove lo ha sconfitto. "Deep in the shady sadness
of a vale", dice Keats. "Deep" ha valore sia di
"remoto" che di "profondo", inteso sia in senso diretto che
nella sua figurata connotazione metafisica. "Sadness" è la resa
inglese di quella "Melancholia" in cui Ovidio vede il carattere
precipuo di Saturno. Del resto, la parola sassone "saldness" indica
l'appartenza di un individuo agli "Aldi", la nobiltà di
nascita. Dunque, in Keats, alla connotazione latina dell' "umor
nero" ' la Melancholia ' si è sostituita quella di un
carattere genetico predeterminato: la "saldness". La tristezza, nella
cultura sassone, è un segno distintivo della nobiltà
d'animo, come non poteva non essere in una cultura che alla propria
indipendenza dall'Impero Romano aveva pagato il tributo di un completo
isolamento culturale. Quindi, tradurre "sadness" con "fatto
nobile dalla malinconia" non costituirebbe, connotativamente, un abuso.
Rimane quel "shady". Strettamente parlando, si tratta di un derivato
di "shadow": l'ombra, ma anche il riflesso del volto nello
specchio, e il ricordo che i morti lasciano nella mente dei vivi. Rendere
"shady" con "come il riflesso di un morto" costituisce certo
una sovrainterpretazione, ma risolve un nodo di connotazioni inestricabile.
Pensiamo di avere ormai raggiunto una sufficiente chiarezza? Al secondo verso si
parla di "healthy breath of morn", dove "healthy" sta per
"apportatore di salute", mentre "breath of morn" è il
respiro. Il passaggio trarrà una connotazione desolata dalla
consapevolezza di come Keats, qui, allude alla sua tubercolosi, i cui ascessi
ciclici si andavano intensificando col progredire del giorno. Allora, quello
"shady" è l'ombra del Keats morto che induce il Keats
artefice a "trarre ancora il respiro", "breath of health",
per assolvere agli obblighi impostigli dalla propria Ombra.
La vita interiore, insomma, costituisce il livello di
connotazione più occulto, in un classico. Spesso, lo stilema in cui
l'inconscio si esprime, è una figura ritmica. Raccontando la genesi
de Il Corvo, Allan Poe ha delineato una metodologia
dell'ispirazione del tutto paradossale, facendo coincidere la massima
suggestività col più ferreo ' quasi meccanico '
rigore. Eppure, chi non collochi l'ossessività di quel
"nevermore" pronunciato dall'uccello del malaugurio,
insinuatosi di soppiatto nella neoclassica sala dove un nobile spirito piange
l'amante precocemente scomparsa, nel panorama connotativo
dell'innologia calvinista, con la sua regolare ricorrenza di avverbi
composti, ad indicare l'irrevocabilità del fato, non
coglierà il rintocco di campana insito in quel solenne richiamo.
Né potrà avvertire quel senso di innaturalità, di
deviazione dall'ordine cosmico, che nasce dall'aver fatto artefice
di questa voce sacra la stupida attitudine mimetica di un corvo. Tradurre
"nevermore" con "mai più" significa scindere
l'avverbio, e rendere il quadrisillabo una sonante ed asseverativa
perorazione. "Giammai" è arcaico ed insincero. L'unica
possibilità è aprirsi la strada attraverso l'imitazione di
un modello connotativamente analogo. In A Zacinto Foscolo, nel
"né più mai" iniziale, riassume un lungo monologo
interiore la cui connotazione è la ridondanza; solo che, mentre Poe
ricorre all'intensificazione progressiva, per accumulo, Foscolo inizia la
poesia laddove il rimuginare del dolore si è già stemperato
nell'immanenza della contemplazione. Rendendo "nevermore"
con "né più mai" si perde un effetto drammaturgico, ma
l'urgenza della connotazione ne trae ulteriore slancio.
L'arte di connotare, dunque, obbedisce a due parametri:
la memoria storica e la coerenza con la drammaturgia interiore
dell'autore. Si tratta di due direzioni opposte, e mai coincidenti.
L'una è sincronica, l'altra diacronica. Una colloca un
fenomeno nell'evoluzione della lingua e della cultura, l'altra ne
isola il significato irripetibile. La scelta del parametro da privilegiare, in
una traduzione efficace, non deve prescindere dalle necessità, qualora si
tratti di un testo poetico, della "lettura verticale". Le assonanze,
le rime, i rimandi interni, sono, in effetti, l'elemento connotativo
più importante, in un testo. L'iscrizione che Dante legge sulla
volta dell'Inferno: "Per me si va tra nella città dolente /
Per me si va nell'eterno dolore / Per me si va tra la perduta gente"
crea un nesso verticale a potenziamento progressivo tra "dolente",
"gente" e "dolore" che, attraverso la ridondanza, riassume
in sé la materia dell'intera cantica. Il traduttore, in questo
caso, deve assolutamente trovare una successione assonante di parole, in
verticale, capace di rendere, nella propria lingua, lo stesso effetto. Allo
stesso modo, in Hyperion, Keats, nei versi tre e quattro, crea un nesso
verticale tra "eve's one star" e "quiet as a
stone" tramite il quale si suggerisce una connotazione paradossale:
l'assonanza tra una stella ed una pietra, grazie alla quale s'insinua
nella coscienza del lettore la sensazione che la stella sia morta, eppure la sua
luce giunga ancora sulla terra. In questa simbologia si annida l'aura
dell'intero poema. Non renderla significherebbe spostare l'intero
suo asse connotativo.
Il problema della connotazione, dunque, ha a che fare con lo
spazio mentale che un testo viene ad occupare nella coscienza del lettore. Il
traduttore che ne alteri la topografia, avrà compiuto l'abuso
peggiore possibile. In fondo, Gertrude Stein, quando dice "una rosa
è una rosa è una rosa", vuole esprimere semplicemente questa
evidenza di senso che nasce da una corretta strategia connotativa, secondo la
quale il rispetto di un testo è la coscienza degli spazi dentro cui si
svolge il suo dramma. La battuta finale di Amleto, "il resto è
silenzio", apre una finestra su quello stesso tempo cosmico sulla cui
immensità Amleto, nel suo celebre monologo, indugia. Un traduttore
italiano degli anni Settanta rese "this is the question" con
"tutto qui?" Ecco che cosa succede a non avere ben chiara la questione
della connotazione...
c) L'elisione
Ogni linguaggio ha i suoi tempi, le pause che ritmano il
discorso. La 'velocità' di un linguaggio è dato dalla
sua natura concettuale. L'organizzazione del pensiero può avvenire
in due modi. Prendendo in prestito i termini dalla musica, potremmo definirli:
semeiotica 'melodica' ed 'armonica'. La prima è
orizzontale, e ricerca la continuità, la levigatezza
dell'intonazione, la fluidità dell'espressione. In essa,
'pensiero' e 'discorso' vengono a coincidere. La sua
strutturazione è centrifuga. La punteggiatura vale ad imitare la
strategia del discorso parlato. Nelle lingue 'melodiche', la
definizione conclusiva dell'atto espressivo è la mimesi gestuale. A
questo primo gruppo appartengono Inglese, Francese ed Italiano. Le lingue
antiche vi esulano nella loro totalità. Il Latino ha
un'organizzazione centripeta del discorso del tutto differente, ed
è in questo aspetto che le lingue cosiddette 'neolatine'
possono, in realtà, definirsi tali solo a prezzo di massicce astrazioni.
La strutturazione centripeta, verticale, delle lingue sassoni,
crea tutta una serie di differenze che ne fanno tanti codici
dall'incomparabile retrogusto semantico. Le parole composte così
care al Tedesco poggiano la loro efficacia sul fatto di annullare, in sé,
la distinzione tra soggetto, predicato e complemento, per cui, in esse, è
come se le qualità di un ente reale o immaginario il suo
'carattere' prendesse un aspetto naterico; non fosse
conseguenza di un atto, ma natura del processo per cui l'atto avviene.
Nelle lingue sassoni le cose non succedono, accadono. Nel semantema
Gesänge c'è il senso di qualcosa che è stato
cantato, in tempi anteriori, ed è, quindi, divenuto 'canto':
c'è l'idea di un'epopea, di una tradizione che sostiene
il canto del singolo individuo. Allo stesso modo, in Unsichtbaren,
l'idea dello 'smisurato' evoca la prospettiva di un essere che
non può raccogliersi, lui per primo, nei limiti della propria coscienza.
Che Urteil sia 'fondamento', è noto;
ma impossibile da esprimere è la sensazione, prima ancora che
l'idea, di frammento piovuto da passato, di archetipo quasi biologico, che
questo termine evoca nella psiche di un tedesco. Il retrogusto vagamente
sinistro di inaffidabilità, di ambivalenza sia logica che etica, di
questo 'fondamento', fa di Urteil qualcosa di quasi opposto
alla solida matrice immanentista che nelle lingue neolatine il termine
'fondamento' assume.
In questo contesto, l'elisione assume una valenza di
sintesi tra denotazione e connotazione. L'inizio della Ballata di Mignon,
nel Wilhelm Meister di Goethe, "Es war ein König in
Thule", ha la fissità della follia: quell'Es iniziale è
un monolite sul limite della ragione cosciente. Non per caso, l'Es
sarà la sorellastra non invitata al ballo dell'Ego e del Superego,
durante la festa con cui la psicoanalisi sposò la linguistica
Una
traduzione italiana ormai divenuta 'classica' commette
l'errore di dare al passaggio una valenza fiabesca: "C'era un
re / Un re di Thule", che, rifiutando la potenza ermetica
dell'elisione, scioglie la catena degli 'effetti collaterali'
in nome in una scelta di campo ben precisa: "a Thule, al tempo delle
favole", per parafrase l'inizio della Turandot di Carlo Gozzi.
Ma, se Goethe avesse voluto alludere alla fine dei tempi? Se quel re fosse
l'unico, solitario, uomo sulla terra, e dunque il suo potere
rappresentasse una ridondanza, una beffa della natura che quell'incipit
ellittico intende travestire da apparenza di senso? Thule rima con
Bühle; la morte dell'amata ha tolto al re l'unica
possibilità di senso. Thule è la follia; quel pazzo solitario
sullo scoglio dell'insensatezza si crede re
Ecco perché,
nella cultura sassone, la fiaba è il regno dell'incubo: la
fissità archetipa dei simboli propria al pensiero 'selvaggio'
dell'infanzia permette al linguaggio dei reperti, all'ellittico
monumentalismo delle lingue sassoni, di sprigionare tutta la propria potenza.
Di fronte a tutta questa complessa rete di problemi,
bisognerebbe avere il coraggio di rispettare la monoliticità delle parole
composte: quel processo per cui, in Tedesco, la materia pensa, ed ogni
ricomposizione di termini in un nuovo semantema ha il fascino del nuovo.
Così, "ich blicke nach Osten, befreien" implica
l'orizzonte dell'Est come percezione, ma anche prospettiva
esistenziale; allo stesso tempo, però, allude anche a qualcosa che, ad
Occidente, mi inibisce di guardare l'orizzonte. Da questo muro, se vado ad
Est, io vengo 'liberato', 'befreien': ma questa
liberazione avviene solo 'nach', come conseguenza di una limitazione
subita, e forse accettata. Dunque, la traduzione più pertinente
sarà: "Seguo con lo sguardo il paesaggio d'Oriente, i suoi
liberi profili", permutando al paesaggio ciò che parrebbe il
carattere del soggetto; quasi un destino, nel momento in cui la sua
contemplazione paesaggistica diventa sguardo interiore. Questa semplice frase,
tremendamente ellittica, è l'incipit di un romanzo recentissimo che
mi è appena capitato tra le mani: la scelta di campo del traduttore
influenzerà la percezione del protagonista, la sua esatta topografia
d'ambienza: il rapporto tra spazio, tempo e coscienza, in tutta la visione
interiore che il lettore avrà del progetto narrativo susseguente. In casi
simili, il problema non è linguistico, ma immaginativo. Il traduttore
deve essere il luogo di analisi delle ambiguità, di loro scioglimento in
dimensioni coerenti, dove il viluppo diventi sviluppo, ed, infine, di
ricombinazione delle loro aporie in un viluppo ('semantema') capace
di sviluppare allo stesso grado esplosive implicazioni d'opposti: un
processo linguistico che poggia su di un Urteil culturale, per produrre,
infine, in chi legge, uno straniamento di segno opposto tra senso e significato.
Si comprenderà fino a che punto la coscienza del traduttore, in questo
gioco di specchi in cui ciò che è convesso per lo scrittore
diventa concavo per il lettore, si debba sentire come la maschera di Escher,
chiusa in quelle palle di vetro dove il pittore fiammingo proietta le
prospettive dei suoi mondi ricorsivi, in cui solo Achille e la Tartaruga possono
sentirsi a loro agio, mentre, correndo, tentano il record dell'omicron
lanciato.
Il problema maggiore, dunque, è la salvaguardia della
densità semantica, effetto ed insieme espressione di un ben preciso
progetto drammaturgico. Un'altra distinzione di merito che può
tornare utile allo scopo è quella tra lingue 'esclusive' e
lingue 'esplicative'. Nel Greco antico, le particelle propositive
con cui inizia una frase potrebbero parere esplicative, con quel loro porre un
'dunque', 'infatti', 'perché',
all'inizio di un discorso le cui valenze non sono ancora state esposte.
Anche in Latino, 'nam' ha spesso una funzione di questo tipo. In
realtà, si tratta di allusioni ad una dimensione argomentativa, che, in
quanto procedente dalla coscienza analitica dello scrittore, viene considerata
antecedente la fase dichiarativa vera e propria. Anche l'Inglese antico ha
esempi molteplici di questa strategia, particolarmente evidenti nel
'for' con cui cominciano certe 'moralità' di
Shakespeare (allo stesso modo si comporta 'und', nella Bibbia
di Lutero). In questo caso, l'elisione viene ottenuta, paradossalmente,
attraverso una ridondanza dei mezzi espressivi. Nelle lingue
'esplicative', invece, l'articolazione del discorso procede
sempre da una percezione spazio-temporale esatta del discorso. La causa di
questa distinzione risiede nella maggiore o minore influenza che la concezione
dei verbi, nelle lingue arcaiche, ha avuto sulle lingue moderne. Nelle lingue
antiche, i verbi non hanno tempi, ma solo 'aspetti': indicano le
conseguenze che un'azione avvenuta nel passato hanno sugli eventi del
presente. L'Aoristo greco ed il Perfetto latino significano che un evento
sta alla base di una successione di eventi che procedono da esso, logicamente ed
indefettibilmente, nel presente. È dunque inevitabile che lingue come il
Tedesco, ed, in certa misura, l'Inglese, presentino un grado di elisione
maggiore rispetto alle lingue cosiddette 'neolatine', le quali, di
fatto, hanno trasgredito questo carattere delle loro lingue madri.
Così, in Francese, il soggetto che compie
un'azione viene inserito come particella epesegetica all'interno
dell'azione descritta. Sotteso al discorso, in Francese, c'è
sempre un interrogativo su chi compie quella certa azione, descritta nella sua
eterna immanenza temporale. Ecco perché Verlaine poté dire:
"de la musique avant tout chose"; perché il Francese deduce il
soggetto dalla situazione fattuale, e non lo impone apoditticamente, come fa,
invece, l'Inglese. Quando Baudelaire scrive: "Les sons et le parfums
tournént dans l'air du soir", la traduzione di questo verso in
lingue più 'verticali', più 'esclusive',
dovrà insistere sull'effetto del turbinio, visto come
totalità percettiva, piuttosto che sulla descrizione di un evento.
Infatti, qui, Baudelaire vuole eliminare il più possibile il punto di
vista, la percezione che un singolo spettatore possa avere di un fenomeno visto
come alternativo rispetto alla coscienza umana. La lingua francese è la
lingua dell'hazard. Tradurre Mallarmé diventa, in questo
senso, una lotta contro lo spazio bianco; una edificazione dell'elisione a
momento forte dell'argomentare proprio in grazia della sua assenza,
all'interno di un discorso, di qualsiasi punto di vista.
L'affermazione di Rimbaud: "Io è un altro", sintetizza il
margine di intraducibilità di qualsiasi discorso poetico, se espresso in
una lingua che, come il Francese, 'pensa se stessa'.
Alfred Jarry ha coniato un termine che riassume tutta la nostra
argomentazione: "Patafisica": si tratta di una disciplina 'a
lato' della Fisica, e non 'sopra' la Fisica, come la
Metafisica, etimologicamente, significa. Nella Patafisica il linguaggio
disarticola se stesso; vuol dire solo se stesso. Il dottor Faustroll di Jarry
è il traduttore ellittico per eccellenza, secondo una lezione che poi
Queneau, nei suoi Esercizi di Stile, ha eretto a sistema.
L'elisione, in questa aurea operina, celebra il proprio trionfo. Le cento
maniere diverse per raccontare un incontro in sé alquanto banale
diventano un'indagine filosofica su come la nostra presunzione, in quanto
lettori, del senso, produca il senso di quanto veniamo leggendo. Solo la
'variazione' in linguaggio matematico, quella in interiezioni, e
quella in 'stile' algebrico rimangono universali. Provarsi nella
traduzione degli Esercizi diventa, per un traduttore letterario che
voglia sentire, prima che capire, sulla propria pelle il problema
dell'elisione, un esercizio imprescindibile. Alfred Jarry, nelle Gesta
ed opinioni del dottor Faustroll, patafisico, riassume l'intera
questione in una battuta: "Un epifenomeno è ciò che si
aggiunge ad un fenomeno". Non conosco traduzione migliore di ciò che
significa rispettare il potere dell'elisione, in una traduzione
letteraria.
Infatti, se definiamo l'epifenomeno il processo di
coscienza che, come un basso continuo, precede ed accompagna la descrizione
dell'evento, comprenderemo che ogni opera letteraria parte da una
presunzione di senso che comporta un processo ellittico a priori. Come la
Patafisica di Jarry, la traduzione, allora, è la "scienza del
particolare esatto in un contesto immaginario". Ed ecco la conseguenza
della 'degenerazione' del linguaggio, dal mondo
'centripeto' delle lingue arcaiche a quello 'centrifugo'
delle lingue moderne. Mentre i Latini dicevano "tenet res, verba
sequentur"; "se sai che cosa vuoi dire, le parole sgorgheranno
spontaneamente da te", la possibilità stessa di fare poesia, nelle
lingue moderne, nasce dal principio opposto: sono i verba a connotare le
res. Ecco perché la poesia moderna è, prima di tutto,
poesia di idea; ed è, quindi, sommamente ellittica. Heidegger chiama
tutto questo processo Holzweg: il sentiero interrotto, che si perde nei
boschi. Si tratta di un'espressione ellitticamente efficace. Peccato che
sia del tutto intraducibile in qualsiasi altra lingua.
d) L'enfatizzazione
Da quel catalogo delle navi
con cui, nell'Iliade di Omero, si
riassume la composizione degli equipaggi che partono per la guerra contro Troia,
in poi, la letteratura ha spesso utilizzato la caratterizzazione enfatica delle
vicende attraverso due procedimenti: la descrizione fisica e la inflazione
dinamica. Per dimostrarne la differenza espressiva, prendiamo due scrittori
francesi di età e cultura diverse: Flaubert e Rabelais. La descrizione del
farmacista Homais, nella Bovary di
Flaubert, culmina in due occhi acquosi dentro cui la luce dell'intelligenza (
raison) è sostituita da quella della
nozione (information). Qui, il concetto di 'informazione' richiama,
per assonanza, la 'stampa' periodica, flagello di una Parigi come
quella di fine Ottocento, in cui l'opinione pubblica dettava legge su mode e
costumi. In una traduzione italiana, allora, sarà fondamentale sottolineare
come, nel farmacista, il 'saper che cosa dire' prevalga sul senso del 'cosa
dire', secondo un'opposizione tra cultura e convenzionalismo di facciata che sta
sottesa a tutta la macchietta del personaggio. E allora, bisogna scrivere: 'I
suoi occhi acquosi sapevano che cosa si dovesse dire', oppure 'sapevano che cosa
andava detto', ma non 'sapevano esprimersi'. Gli occhi, in questo caso,
enfatizzano un'ambiguità che è tanto più fisica in quanto, prima di tutto,
semantica. In uno dei passaggi più intensi del romanzo, Madame Bovary, ormai
intenzionata ad uccidersi, si reca in confessione dal curato del villaggio, il
quale, allarmato dalla disperazione della donna, non le sa ammannire che stinti
precetti evangelici. In questo caso, i richiami ai Salmi vanno recuperati
con attenta filologia testuale, riprendendoli da un linguaggio 'patavino', un gergo
provinciale intriso di luoghi comuni e proverbi, tutto fratto ed ansante, ed, in
quanto tale, ben diverso dal lessico altrettanto convenzionale, ma mutuato sui
poeti romantico-parnassiani più deteriori (in particolar modo, Gauthier) tanto
invisi a Flaubert da metterli in bocca, onde solennizzarne il crollo fisico,
alla sua eroina.
Del tutto opposto il caso di
Rabelais. Il Gargantua e Pantagruele
è spesso attraversato da epiteti che i due protagonisti si rivolgono in un
contrappunto osceno dall'infantile comicità: in un caso, al gergale 'con'
(il membro maschile) seguono cinquantaquattro aggettivi qualificativi che attingono a tutti i codici del
linguaggio, da quello sensoriale-gastronomico a quello teologico-filosofico.
L'enfatizzazione, qui, persegue un intento opposto a quello di Flaubert: vuole
far perdere di vista al lettore il riferimento con la situazione contingente,
per sommergerlo in un mondo 'tautologico', materico, liberatoriamente percorso
in un solo colpo d'occhio.
Nel caso di Flaubert, il
traduttore dovrà attenersi al suo orecchio interiore ed alla sua visione interna
della scena per rendere con la massima efficacia possibile lo straniamento tra
la ricerca apparentemente elettiva, del linguaggio impiegato e la situazione di
oscenità morale in cui l'azione precipita; nel caso di Rabelais, si ricercherà,
invece, la più pura meccanicità denotativa, del tutto immune da ogni
articolazione di soggetto e complemento: da ogni 'azione drammatica'.
Per rimanere nell'ambito
della Letteratura Francese, un caso intermedio è dato dal celebre 'monologo del
naso', nel Cyrano di Edmond Rostand.
La successione di attributi che il protagonista conferisce al suo 'promontorio'
ha un che di rabelaisiano per il connubio tra corpo umano e natura inanimata che
li caratterizza, ma il modo in cui il drammaturgo adopera questa elencazione per
imprimere a Cyrano un aspetto rodomontico, un'innata enfasi del carattere che
cela un senso di inferiorità decisivo per gli eventi futuri del dramma, fa
intuire come l'opera risalga all'età del 'realismo borghese'. Per un traduttore,
la difficoltà maggiore nasce dal fatto che, in molti casi, Rostand fa
riferimento ad utensili dell'arredamento domestico, da caffettiere a stirabaffi,
o a manufatti del vestiario, ombrelli e ganci per vestiti, attualmente del tutto
scomparsi, e che vanno quindi rimpiazzati con arnesi che siano riconoscibili
all'esperienza quotidiana dei lettori. L'effetto comico, infatti, qui nasce dal
contrasto tra l'umiltà oggettuale dei paragoni, tipici di una cultura materiale
ancora di estrazione contadina, ed il tono epico con cui essi vengono investiti
di una dignità simbolica, come fossero parti di uno di quegli uomini artificiali
che Arcimboldo, nei suoi dipinti, realizzava assemblando viti, bulloni, livelle
e piante ornamentali.
Uno degli incipit più difficili della letteratura
universale è quello de L'Uomo senza
Qualità di Robert Musil. L'azione si
svolge a Vienna, in un giorno qualunque di primavera. Onde far percepire fino in
fondo la genericità del situazione, ed, insieme, la disumanizzazione
esistenziale in cui i personaggi si trovano a percorrere il loro frenetico
quanto stolto peregrinare tra le vie della città, Musil descrive una complessa
situazione meteorologica, indugiando sulle isobare, le isoterme, i meridiani ed
i paralleli il cui intersecarsi connota il cielo - per quel giorno, limpido - di
Vienna. Si tratta di un passaggio stupendo, in quanto, qui, la denotazione più
nitida e neutra diventa, paradossalmente, connotazione patetica di un'umanità
perduta dietro a vani sogni. Musil articola la sua descrizione per periodi tutti
uguali, tutti composti da una principale ed una subordinata; solo che, per la
particolare caratteristica del Tedesco di consentire un'assoluta identificazione
tra temporale e causale, l'effetto colto da un lettore in lingua originale è
quello di un 'weil' subordinante che, da un atteso 'per cui', assume via via la
valenza di un 'al contempo'. Ne deriva una frustrazione del senso, sostituito
dall'immanenza del vuoto scorrere del tempo. Non si poteva dare espressione
narrativa più lucida al problema, posto negli stessi anni Venti da Heidegger,
della non convergenza tra Sein e Zeit: 'Essere' e 'Tempo'. Come rendere
un gioco di specchi di questo tipo? Rendere 'weil' con 'nel tempo conseguente' è
solo un suggerimento, ma un attento studio del passo ci permette di comprendere
un potente effetto retorico dell'enfatizzazione: la perdita della posizione
centrale della coscienza all'interno del processo descrittivo.
Al principio de L'Eletto, Thomas Mann descrive lo
scampanio ossessivo con cui, a Roma, viene celebrata l'elevazione al soglio
pontificio di Gregorio: l'incestuoso peccatore della cui vicenda di redenzione
narrerà, burlescamente, il romanzo. La maniera icastica con cui viene segnalata
la ripresa, da una chiesa all'altra, del suono, aderisce alla maniera di
Rabelais; anche qui, dunque, abbiamo una progressiva dissociazione tra un'azione
umana ed il suo significato sociale: un progressivo disumanizzarsi del rito,
fino a che questo non assume una valenza contraria. Ed infatti, lungo tutto il
romanzo, le voci immateriali e le sonorità angeliche che guideranno Gregorio
alle tappe del suo peccato saranno seduzioni diaboliche travestite. Suono come
rovesciamento di segno etico, dunque. E allora, tradurre l'incipit con
'suonar di campane'
diventerebbe una mistificazione; si prediligerà, invece, la enfatizzazione
'campane, campane dal suono disteso; su tutta Roma, campane'. Naturalmente,
soltanto una lettura per intero del romanzo renderà evidente questo artificio
retorico. Gli inizi enfatici sono, proprio per la loro intensità icastica, dei
pessimi consiglieri, per i traduttori.
Chi abbia scorso una
traduzione dei Promessi Sposi in
lingua inglese si sarà accorto di come il lunghissimo periodo con cui inizia il
Primo Capitolo venga solitamente risolto in una serie di incisi descrittivi che
richiama il paesaggismo disincantanto di Jane Austen. A forza di porre Manzoni a
modello scolastico di stile, si rischia di mal comprendere le ragioni del suo
operare. Il romanzo comincia con la descrizione di una distesa d'acqua immobile:
il lago di Como, osservato nella sua distesa lontana di montagne, vallate e
serpentine d'affluenti che si confondono con l'azzurro del cielo. Ad un certo
punto, una data viene ad interrompere questo fluviale scorrere indifferenziato
del tempo: a quella data corrisponde un muretto eretto sulle dorsali di un
colle; per quel muretto corre una strada, e per la strada se ne viene Don
Abbondio. Dunque: la civiltà materiale come storia - e, in quanto tale, male,
perché corruttibile - contro la serena atemporalità della natura, non costretta
entro nessun limite, serena perché generata prima ed a prescindere da ogni
contrapposizione dialettica. Il periodo iniziale è l'espressione di una
continuità indifferenziata che impiega le parole per rimandare ad una verità
preverbale. In questo caso, l'enfatizzazione ascende ad un terzo grado di
densità (ogni svolta dell'ambiguità denotativa corrisponde, in essa, ad
un'elevazione del livello allusivo): un misticismo simbolico raggiunto
attraverso l'ironia sui codici referenziali più diretti. Un cortocircuito
linguistico bello e buono, che viene sconvolto dal di dentro se, nel tradurre
questo 'polpettone' iniziale furbescamente autocompiaciuto, se ne smussa la
lucida pesantezza.
Sarebbe percepibile, ad un
pubblico anglosassone, un simile 'controtesto'? A giudicare dai giochi
linguistici di Chaucer, sì. Dunque, soltanto ricorrendo ad arcaismi 'strategici'
pare possibile risolvere un nodo immanente alle diverse maniere con cui la
cultura linguistica italiana e quella inglese delineano il rapporto tra codice e
controtesto. Una verifica secondo il percorso opposto dell'assunto viene dal
tradurre i Racconti di Canterbury di
Chaucer in Italiano: risulterà quasi impossibile non incorrere in connotazioni
desunte dal Boccaccio, mentre, invece, la provenienza dall'area bretone e
sassone delle vicende esclude riferimenti linguistici derivati al Medioevo
italiano dalla vicinanza col Sacro Romano Impero ed i suoi imprestiti
neolatini.
Terminiamo con un esempio
riassuntivo: la Ballata del Vecchio
Marinaio di Coleridge è strutturalmente basata su di una figura enfatica
semantico musicale: 'Water, water everywhere', che, se tradotta con 'acqua,
acqua, ovunque' dà l'idea di un'abbondanza, piuttosto che di una carenza. Questa
morte di sete in mezzo all'acqua salata scatena un gioco di enfasi
sull'ambiguità degli elementi, dove l'opposizione acqua dolce/acqua salata
riprende quella civiltà/natura. L'enfasi, qui, è più vicina al tipo di Rabelais
che a quello di Flaubert. 'Mare, ovunque mare' ha connotazioni melodrammatiche
quasi risolutive. 'Il mare ovunque disteso' ha movenze neoclassiche ed elegiache
antipatetiche. Si potrebbe tentare un 'E il mare, il mare in ogni dove', con
quel senso di incunearsi meccanico che evoca ad un tempo il desiderio di acqua
ed il timore di affogare. Lo scioglimento del problema, comunque, passa
attraverso la percezione interiore del traduttore, qui chiamato, come ovunque
sussista un livello di enfatizzazione, a farsi partecipe del cortocircuito tra
senso e significato, per poi rendere la sensazione del paradosso antidialettico
secondo una nuova strategia, legata agli elementi che, entro l'ambito della
propria cultura nazionale e personale, possono produrre un analogo fenomeno di
straniamento. Il problema risulta estremo in opere che, come i Fiori Blu di Raymond Queneau, sono
progressioni articolate ed inarrestabili verso l'enfasi del codice linguistico
rispetto alla nuda espressione referenziale della vicenda narrata. La traduzione
di quest'opera in Italiano è un 'hic sunt leones' in cui ogni traduttore
dovrebbe, prima o poi, perdersi, per poter dire 'emphasys, emphasys
everywhere'.