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SECONDA PARTE

Modalità di rappresentazione nelle lingue letterarie

 

1. I codici linguistici: denotazione, connotazione, elisione, enfatizzazione

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a) La denotazione

Raccontare ed alludere sono due processi linguistici differenti: nel primo caso, si definisce un'ambienza, uno scenario dentro al quale sia possibile collocare personaggi e suggestioni; nel secondo, ci si affida alle competenze culturali del lettore per stabilire con lui un gioco di corrispondenze tra attesa e soddisfacimento.

L'allusione implica sempre una rarefazione progressiva del messaggio. In pratica: prima si crea un'attesa, poi la si delude. Nel Pozzo e il Pendolo di Poe, l'allusione viene attuata attraverso i suoni; dapprima, il tramestio smorzato ed il progressivo allontanamento dei topi dalle gambe del condannato legato alle catena, inducono un senso di sollievo; poi, l'incombere sempre più dappresso dell'ossessivo ticchettio del pendolo delinea uno scenario di incubo tanto più ossessivo in quanto 'in controtendenza scenica': qui, la scissione tra drammaturgia ed emozioni assume tinte demoniache. Allo stesso modo, nel Processo, Kafka risolve ogni aspetto metafisico del dramma nella prima battuta: "K. doveva avere fatto qualcosa..."; il resto, è solo messa in scena del non senso, tanto più accurata in quanto deprivata, da quella terribile captatio principii iniziale, di ogni significato.

Quel 'doveva', insomma, nella psiche di chi legge, prende subito caratteri di fuoco; diventa un doveva. Come dire che lo stare al mondo, l'occupare non solo una posizione etica, ma anche soltanto fisiologica, significa, per ognuno di noi, un peccato originale sotteso a tutto il nostro esistere...

Ed ecco un primo paradosso: la denotazione, qualora venga perseguita da uno scrittore dotato di chiarezza metafisica (Dostoevski, Conrad, Camus, piuttosto che Flaubert o Thomas Mann, per non citare che opposizioni imprevedibili) apre squarci di abbagliante nitore sulle implicazioni etiche dell'esistere. Il fare accadere, insomma, nei tempi giusti, con la progressione giusta, è un atto di accusa al creato molto più efficace di qualsiasi delirio nichilista. L'artista distoglie l'occhio sdegnato, e questo suo non essere presente a ciò che racconta diventa, paradossalmente, consonanza umana.

Un caso limite è quel passaggio della Commedia dantesca in cui si parla della morte per fame di Ugolino della Gherardesca: "poscia, più che il dolore, poté il digiuno". Il sospetto che Ugolino abbia mangiato i propri figli morti di fame si accampa senza speranza nella mente del lettore; eppure, Borges ha dedicato diverse pagine a dimostrare come questa sfumatura perversa, a Dante, non sia nemmeno passata per la testa. Dante ha denotato la morte di Ugolino per fame; noi lettori moderni, a causa dei pregiudizi di cui è intessuta la nostra visione del Medioevo (e che ne fanno, per converso, il fascino) connotiamo il fatto che Ugolino abbia mangiato i propri figli. Del resto, questa transizione, nel saggio di Borges, non è espressa; l'ho connotata io. Definire, un traduttore 'moderno', nell'ambito di questa controversia, da che parte debba stare, significa scrivere un vero e proprio manifesto etico dell'atto del tradurre.

Riassumendo: la denotazione persegue il mito dell'oggettività, la funzione espressiva della percezione pura. Siccome l'osservazione del reale è una funzione del punto di vista - unico parametro 'etico' possibile - ne deriva che la connotazione sottende un giudizio sulla realtà più spietato di qualsiasi allocuzione.

Per un traduttore, la denotazione è terra di tranelli, visto che comporta l'accettazione di un'ambiguità tra senso e significato capace di produrre il massimo perturbamento. È famoso quel detto dei Sofisti: "Epimenide il cretese sostiene che tutti i cretesi sono bugiardi". L'unico modo per venirne fuori è dissociarsi. Al tema della dissociazione, Heine ha dedicato una poesia: Der Doppelgänger: il Sosia. Un amante respinto cammina sotto la luna; passa sotto la casa dell'amata di un tempo; occhieggia le finestre, e vede il suo Sosia, il se stesso di allora, vivere la sua breve ed illusoria vita felice con l'amata. Tutto sembra solo serenamente masochistico. In realtà, la scelta della denotazione pura crea un gioco di specchi vertiginoso. La luna è "bleiche Geselle", la "compagna pallida" del poeta. La luna si specchia nelle finestre; i suoi raggi illuminano Der Doppelgänger, che, in Tedesco, oltre che Sosia, è anche Ombra. "Geselle" significa anche "allievo", "garzone". Il poeta, dunque, in quanto maestro del "Geselle", della Luna - suo riflesso, come Ombra, nel cammino verso la casa di un tempo - è allucinazione del poeta di un tempo (ma è davvero, quello "di un tempo?") ovvero l'amante felice: prefigurazione, nella mente di un folle, del cammino senza redenzione che lo aspetta, dopo l'effimera felicità. Tutto questo, è 'interpretazione'? No; in quanto semplice scenario, definizione sensoriale dello spazio dato, resta denotazione allo stato puro: gioco in cui l'ambiguità del linguaggio poetico tocca il livello massimo.

Quando si va a tradurre tutto questo, sono guai. L'unica possibilità è la fuga nella reiterazione: la Luna, dunque, è la "pallida amante del poeta", "maestro delle ombre". Abbiamo connotato? Piuttosto, abbiamo mutato il 'teatro interiore' della scena, con conseguente ampliamento del 'campo'. L'operazione è illegittima, ma espressiva. Passa attraverso l'immaginazione. Peccato che, così, ci sfugga un particolare: in Tedesco, la luna è un maschietto: Der Mond. "Geselle", significa anche "giramondo"; dunque: la luna è il poeta girovago, senza patria. L'allieva del poeta, insomma, diserta le lezioni del poeta-maestro. La poesia si rivela, alla fine, anche una sottile irrisione verso i luoghi comuni del poeta-vate, alla Goethe... Per questa volta, una bella nota a pie' di pagina non ce la leva nessuno.

Pensate che il problema esista solo nelle lingue straniere? Quando la Monaca di Monza viene avvicinata dal bel giovane che le farà infrangere il voto di castità, che cosa ci autorizza a supporre che "la sventurata rispose" di sì. Ciò che Manzoni ci ha raccontato, della lussuriosa religiosa, fino a quel punto. Allora Manzoni è Epimenide il cretese; lo stesso è qualunque traduttore.

Nel Finnegan's Wake, Joyce ha cercato di trarsi d'impaccio sospendendo ogni distinzione tra percezione e fenomeno. Tutti sanno che "i fiumi scorrono"; pochi che, sulla pagina scritta, il fiume è sempre un "riverrun": uno "scorrefiume"; che non vuol dire "il corso di un fiume"; infatti, a differenza di quello, il "riverrun" non occupa alcuno spazio scenico. Esso è pura azione, denotazione pura.

Viene in mente la lapide che Stendhal, vero profeta della denotazione, dettò per se stesso: "visse, scrisse, amò". Il traduttore si avvicina tanto più alla denotazione - vale a dire: traduce - quanto più si avvicina al puro agire. Nel De Brevitate Vitae, Seneca sostiene che la vita non è breve, ma diventa tale perché noi facciamo cattivo uso del tempo. "Exigua parte est vitae qua vivimus": dice, citando Virgilio; "ceterum quidem omne spatium non vita, sed tempus est". Ora: quando si impara il Latino, a scuola, ci si affanna a far coincidere con l'ablativo semplice tutta una ridda di complementi 'moderni': tempo determinato, stato in luogo, condizione, ecc. ecc., laddove i Latini coglievano la denotazione sublimemente ambigua di un ablativo assoluto; vale a dire: "ciò che è così, né può essere altrimenti". Dunque: "pars vitae qua vivimus" è lo spazio della vita che ci è dato; fuori di essa, si muove il tempo infinito, che a noi rimane, proprio in quanto siamo vivi, non percepibile. La "vita" consiste, allora, nel renderci possibile percepire questo "tempus". Non c'è male, come potenza filosofica della denotazione pura! Volete un esercizio da far "tremare le vene e i polsi"? Provate a far passare tutto questo discorso in Italiano, rimanendo nei limiti della denotazione...

Alle volte, la denotazione può investire l'intera struttura di un romanzo. Il caso limite è costituito dall'Uomo senza qualità di Musil, la cui 'trama' è l'Azione Parallela: i preparativi con cui alcuni alti funzionari dell'Impero Asburgico si preparano a festeggiare i cinquant'anni di regno di Francesco Giuseppe. Per i personaggi coinvolti nel trionfalistico progetto, l'Azione Parallela è l'azione è basta. Per chi è, dunque, parallela? Per Musil, in quanto osservatore del mondo del proprio stesso romanzo, che, non per niente, comincia con la descrizione di una bella giornata di sole su Vienna realizzata utilizzando il linguaggio freddo e 'scientifico' della meteorologia, a suon di isobare e paralleli... La denotazione, qui, diventa, allo stesso tempo, elisione attraverso l'enfatizzazione. Il punto di vista iniziale è quello cosmico; la prospettiva del racconto, al suo interno, dunque diventa quella di una campana di vetro: la Vienna artificiale di Francesco Giuseppe, dentro cui alcune cavie del biologo-Musil compiono i loro insensati rituali. Se, quando si traduce, non si riesce a denotare tutto questo, il senso di divertimento metafisico se ne va sul battito d'ali di una farfalla: quello capace, secondo la Meteorologia, di scatenare tempeste ai lati opposti dell'orbe terracqueo...

La poesia arcaica costituisce un valido esercizio di denotazione, per il traduttore moderno. In essa, l'unica maniera per denotare qualcosa è la metafora: vale a dire, la relazione, sufficiente ma non necessaria, tra qualità incommensurabili di oggetti differenti. Così, nei canti dell'Edda islandese, l'aria è "la casa del vento"; le aringhe sono "frecce del mare", la barba è "il bosco della mascella", la panca "albero da sedere", la birra "marea della coppa", i denti sono "rupi delle parole", il cuore è "la dura ghianda del pensiero", ecc. ecc. Ancora una volta, la denotazione è l'arte di rappresentare pittoricamente l'agire di un ente sopra l'universo mondo, attraverso le virtù dell'immaginazione interiore. Abbiamo denotato l'atto del tradurre?

In sintesi, potremmo definire la denotazione un atto allusivo che aspira alla connotazione, senza mai risolvervisi. È essenziale, per un traduttore, rispettare questo pudore del testo. I Greci dicevano che la parola poetica è "pan kai en": il tutto nei limiti dell'Uno. Ne nasce la necessità di possedere a livello subliminale l'intera drammaturgia di un testo, prima di tradurlo. Vivere nei parametri della sua drammaturgia, prima di mettervi mano; rendere la drammaturgia 'atto espressivo'. Nel traduttore, il tempo dell'opera diventa spazio.

Nel Paradiso di Dante, Dio viene denotato come "la gloria di colui che tutto move"; essa "per l'universo penetra e risplende". Dio, dunque, è 'tempo' e, come tale, 'dramma'. Nell'Inferno, Egli 'move' le passioni, come storia; nel Purgatorio, 'penetra il tempo', mettendo a frutto la storia di ogni individuo in funzione dell'eternità; nel Paradiso, 'risplende', avendo ormai liberato dal tempo le anime da Lui illuminate. La prima terzina del Paradiso denota, insomma, l'intera Commedia. Abbiamo scoperto il 'fulcro denotativo' del poema. Ora l'atto del tradurre diventa legittimo.

Il senso delle cose è insito nelle cose, come nella ghianda è insita, secondo Goethe, l'intera quercia. Nel finale del Faust, "Alles Vergaengliche ist nur ein Gleichnis": dice Goethe. È l'inno alla denotazione. Bene: come ti rende questo passaggio finale del Faust, un celebre traduttore? "Tutto il Fuggente, non è che Simbolo..." "Simbolo", Gleichnis? Etimologicamente, significa "ciò che assomiglia a qualcos'altro": "analogia". Il termine "Simbolo" connota, "Gleichnis" denota. Infatti, qual è il significato primario sotteso ad ogni parola, ogni ente: ciò che conferisce a tutto ciò che per merito suo viene definito, la sua legittimità? Goethe non lo sa: il suo traduttore, sì, visto che incrosta sulla terribile nudità dell'originale un sovrastrato cattolico-gesuitico dalla notoria potenza, storicamente, nel tessuto culturale italiano... Sapete come si salva, Faust? Perché gli angioletti, nudi e vezzosi, distraggono Mefistofele con le grazie dei loro glutei androgini... Anch'essi, sono "simboli"?

Il nemico peggiore, per un traduttore, è la paura dell'horror vacui. Il rispetto della denotazione è il cimento, per lui, più arduo e perturbante... Il più necessario. Come dice Borges in una sua tremenda poesia, il pensiero più cupo, per uno scrittore, è il non sapere, quando descrive una tigre, se ci sia, dietro le parole, la Tigre archetipa, a legittimare il suo discorso... La traduzione è la ricerca, dentro di sé, di questa tigre originaria.


b) La Connotazione

L'interpretazione di un testo letterario obbedisce sempre a un metodo che è frutto della cultura nell'ambito della quale avviene l'interpretazione del testo. Così, la "selva oscura" dantesca, nel Novecento di Freud, viene interpretata come metafora della depressione nervosa: la malattia del secolo. La scuola storicistica in voga negli anni Cinquanta, invece, vedeva nella selva oscura il simbolo delle controversie politiche subite da Dante in gioventù. Questa seconda interpretazione è un simbolo, perché può essere fruita soltanto conoscendo le convenzioni dell'epoca in osservanza ai cui dettami è stata elaborata. Il simbolo è frutto di un'immedesimazione storicistica; la metafora, invece, è la linfa viva che trasuda dal tronco dei Classici.

La connotazione è l'aura di un testo. La posizione che occupa nella cultura di cui è espressione, la progenie di testi cui dà luogo, il vago e dubbioso cimento interpretativo che opera nei suoi lettori: tutto questo produce, al di fuori del testo, una selva di "valori aggiunti" che costituiscono il suo elemento "archeologico": quello non dominando il quale il traduttore letterario si troverà, di fronte al classico, in braghe di tela.

Nell'Odissea, una delle scene più significative è quella in cui Ulisse, seguendo le raffigurazioni incise sul suo scudo, illustra alla corte dei Feaci la caduta di Troia. In quel momento, Ulisse traduce per se stesso gli avvenimenti di cui, pure, è stato protagonista, comprendendo come, nel momento in cui l'esperienza diventa linguaggio, tutto diviene ricordo, e, quindi, "traduzione" di un'esperienza. Ogni opera letteraria è un'ermeneutica che va condivisa dal traduttore.

Nel secolo appena trascorso, i classici vertono tutti sul tema della reminiscenza. L'Ulisse di Joyce è un'opera archeologica per eccellenza. L'episodio della Biblioteca, col suo ripercorrere la storia della lingua inglese da Chaucher ai moderni, è un viaggio nella memoria collettiva che il traduttore deve avere il coraggio di introiettare come sfida, ma non di risolvere in una metodologia. Dai poeti siciliani a Laborynthus di Sanguineti, anche la lingua italiana ha conosciuto un suo percorso sincronico. In Francia, l'escursione va da Le Jeu de Robin et Marion a Jarry, con la sua Patafisica. In Germania, dai Minnesänger all'Alfred Döblin di Berlin Alexanderplatz. La connotazione, in sostanza, è una storia delle idee attraverso lo stile.

Ogni percezione ha una sua prospettiva. L'importante è non ridurre la metafora a simbolo. Chi si cimenti nell'arduo compito di tradurre, nel Parsifal di Wolfram von Eschenbach, il capitolo in cui il protagonista, assistendo alla cerimonia dell'ostensione del Sacro Graal, ascolta Amfortas passare in rassegna i nomi delle pietre preziose recate dalle ancelle, deve avere ben chiaro come, nel Medioevo del Sacro Romano Impero, esse rappresentino altrettante virtù dell'intelletto umano. Il topazio è l'intuzione del divino, lo smeraldo il cuore della fede, il rubino la prescienza dell'iniziato... Anche nel Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde esiste un elenco di pietre preziose; in questo caso, però, la loro connotazione non è certo di qualità metafisica. Le pietre medioevali sono idee fatte luminescenza, i gioielli di Wilde sono superbi ammenicoli visuali. Quella del Medioevo tedesco è una filosofia dell'apparire, laddove nel Decadentismo abbiamo un'estetica del sembrare. La connotazione dei due linguaggi è drammaticamente opposta.

Allo stesso modo, quando Dante, nel Convivio, definisce l'ispirazione come "Amor che nella mente mi ragiona", identificare questa "ragione" come "logos" sarebbe un grande abuso. Essa corrisponde, in inglese, a "perception", in francese a "vision", in tedesco ad "Einfühlung". È qualcosa che quasi si tocca con mano. Il Medioevo era connotato da codici visuali. I cicli di affreschi ostentati nelle pareti delle chiese costituivano il libro di testo sul quale veniva appreso il senso delle Sacre Scritture. La rappresentazione della realtà è, nel Medioevo, la suprema metafisica. Siamo alquanto lontani dal quel "discorso indiretto libero" su cui è costruita la letteratura del Novecento. La letteratura del Medioevo ignora la prospettiva; vale a dire, la coscienza. La letteratura del Novecento non conosce altro che la coscienza.

Dalla rivelazione del vero alla sua immaginazione, il percorso è scandito da sentieri che trovano la loro sintesi in una delle opere più irriducibilmente d'avanguardia che siano mai state concepite: il Tristram Shandy di Laurence Sterne. Nelle peripezie che portano il protagonista di questa autobiografia a nascere solo dopo quando il romanzo è quasi finito, ha grande parte la figura del medico prescelto dalla signora Shandy per vegliare sul suo parto. Il ritardo con cui questo personaggio presta la sua opera è decisivo per gli eventi successivi. Nel terzo capitolo, il dottore si affretta verso la gestante su di un "hobby horse". Nelle traduzioni italiane, lo si rende con "pony". Ma l'"hobby horse" è anche il cavallo di legno delle giostre, quel "caval de bois" cui Verlaine dedica una delle sue più sinistre poesie, facendo della giostra un simbolo dell'ossessività con cui l'uomo si crocifigge al proprio destino. È chiaro che Sterne, in questa maniera, intendeva irridere all'infantilismo per cui ogni individuo scova connotazioni metafisiche nel proprio destino.

Un altro esempio di connotazione difficoltosa: John Keats, in Hyperion, intende dar vita ad un corrispettivo moderno delle Metamorfosi di Ovidio. All'inizio del poema, il titano Saturno giace a terra, dopo che Giove lo ha sconfitto. "Deep in the shady sadness of a vale", dice Keats. "Deep" ha valore sia di "remoto" che di "profondo", inteso sia in senso diretto che nella sua figurata connotazione metafisica. "Sadness" è la resa inglese di quella "Melancholia" in cui Ovidio vede il carattere precipuo di Saturno. Del resto, la parola sassone "saldness" indica l'appartenza di un individuo agli "Aldi", la nobiltà di nascita. Dunque, in Keats, alla connotazione latina dell' "umor nero" ' la Melancholia ' si è sostituita quella di un carattere genetico predeterminato: la "saldness". La tristezza, nella cultura sassone, è un segno distintivo della nobiltà d'animo, come non poteva non essere in una cultura che alla propria indipendenza dall'Impero Romano aveva pagato il tributo di un completo isolamento culturale. Quindi, tradurre "sadness" con "fatto nobile dalla malinconia" non costituirebbe, connotativamente, un abuso. Rimane quel "shady". Strettamente parlando, si tratta di un derivato di "shadow": l'ombra, ma anche il riflesso del volto nello specchio, e il ricordo che i morti lasciano nella mente dei vivi. Rendere "shady" con "come il riflesso di un morto" costituisce certo una sovrainterpretazione, ma risolve un nodo di connotazioni inestricabile. Pensiamo di avere ormai raggiunto una sufficiente chiarezza? Al secondo verso si parla di "healthy breath of morn", dove "healthy" sta per "apportatore di salute", mentre "breath of morn" è il respiro. Il passaggio trarrà una connotazione desolata dalla consapevolezza di come Keats, qui, allude alla sua tubercolosi, i cui ascessi ciclici si andavano intensificando col progredire del giorno. Allora, quello "shady" è l'ombra del Keats morto che induce il Keats artefice a "trarre ancora il respiro", "breath of health", per assolvere agli obblighi impostigli dalla propria Ombra.

La vita interiore, insomma, costituisce il livello di connotazione più occulto, in un classico. Spesso, lo stilema in cui l'inconscio si esprime, è una figura ritmica. Raccontando la genesi de Il Corvo, Allan Poe ha delineato una metodologia dell'ispirazione del tutto paradossale, facendo coincidere la massima suggestività col più ferreo ' quasi meccanico ' rigore. Eppure, chi non collochi l'ossessività di quel "nevermore" pronunciato dall'uccello del malaugurio, insinuatosi di soppiatto nella neoclassica sala dove un nobile spirito piange l'amante precocemente scomparsa, nel panorama connotativo dell'innologia calvinista, con la sua regolare ricorrenza di avverbi composti, ad indicare l'irrevocabilità del fato, non coglierà il rintocco di campana insito in quel solenne richiamo. Né potrà avvertire quel senso di innaturalità, di deviazione dall'ordine cosmico, che nasce dall'aver fatto artefice di questa voce sacra la stupida attitudine mimetica di un corvo. Tradurre "nevermore" con "mai più" significa scindere l'avverbio, e rendere il quadrisillabo una sonante ed asseverativa perorazione. "Giammai" è arcaico ed insincero. L'unica possibilità è aprirsi la strada attraverso l'imitazione di un modello connotativamente analogo. In A Zacinto Foscolo, nel "né più mai" iniziale, riassume un lungo monologo interiore la cui connotazione è la ridondanza; solo che, mentre Poe ricorre all'intensificazione progressiva, per accumulo, Foscolo inizia la poesia laddove il rimuginare del dolore si è già stemperato nell'immanenza della contemplazione. Rendendo "nevermore" con "né più mai" si perde un effetto drammaturgico, ma l'urgenza della connotazione ne trae ulteriore slancio.

L'arte di connotare, dunque, obbedisce a due parametri: la memoria storica e la coerenza con la drammaturgia interiore dell'autore. Si tratta di due direzioni opposte, e mai coincidenti. L'una è sincronica, l'altra diacronica. Una colloca un fenomeno nell'evoluzione della lingua e della cultura, l'altra ne isola il significato irripetibile. La scelta del parametro da privilegiare, in una traduzione efficace, non deve prescindere dalle necessità, qualora si tratti di un testo poetico, della "lettura verticale". Le assonanze, le rime, i rimandi interni, sono, in effetti, l'elemento connotativo più importante, in un testo. L'iscrizione che Dante legge sulla volta dell'Inferno: "Per me si va tra nella città dolente / Per me si va nell'eterno dolore / Per me si va tra la perduta gente" crea un nesso verticale a potenziamento progressivo tra "dolente", "gente" e "dolore" che, attraverso la ridondanza, riassume in sé la materia dell'intera cantica. Il traduttore, in questo caso, deve assolutamente trovare una successione assonante di parole, in verticale, capace di rendere, nella propria lingua, lo stesso effetto. Allo stesso modo, in Hyperion, Keats, nei versi tre e quattro, crea un nesso verticale tra "eve's one star" e "quiet as a stone" tramite il quale si suggerisce una connotazione paradossale: l'assonanza tra una stella ed una pietra, grazie alla quale s'insinua nella coscienza del lettore la sensazione che la stella sia morta, eppure la sua luce giunga ancora sulla terra. In questa simbologia si annida l'aura dell'intero poema. Non renderla significherebbe spostare l'intero suo asse connotativo.

Il problema della connotazione, dunque, ha a che fare con lo spazio mentale che un testo viene ad occupare nella coscienza del lettore. Il traduttore che ne alteri la topografia, avrà compiuto l'abuso peggiore possibile. In fondo, Gertrude Stein, quando dice "una rosa è una rosa è una rosa", vuole esprimere semplicemente questa evidenza di senso che nasce da una corretta strategia connotativa, secondo la quale il rispetto di un testo è la coscienza degli spazi dentro cui si svolge il suo dramma. La battuta finale di Amleto, "il resto è silenzio", apre una finestra su quello stesso tempo cosmico sulla cui immensità Amleto, nel suo celebre monologo, indugia. Un traduttore italiano degli anni Settanta rese "this is the question" con "tutto qui?" Ecco che cosa succede a non avere ben chiara la questione della connotazione...


c) L'elisione

Ogni linguaggio ha i suoi tempi, le pause che ritmano il discorso. La 'velocità' di un linguaggio è dato dalla sua natura concettuale. L'organizzazione del pensiero può avvenire in due modi. Prendendo in prestito i termini dalla musica, potremmo definirli: semeiotica 'melodica' ed 'armonica'. La prima è orizzontale, e ricerca la continuità, la levigatezza dell'intonazione, la fluidità dell'espressione. In essa, 'pensiero' e 'discorso' vengono a coincidere. La sua strutturazione è centrifuga. La punteggiatura vale ad imitare la strategia del discorso parlato. Nelle lingue 'melodiche', la definizione conclusiva dell'atto espressivo è la mimesi gestuale. A questo primo gruppo appartengono Inglese, Francese ed Italiano. Le lingue antiche vi esulano nella loro totalità. Il Latino ha un'organizzazione centripeta del discorso del tutto differente, ed è in questo aspetto che le lingue cosiddette 'neolatine' possono, in realtà, definirsi tali solo a prezzo di massicce astrazioni.

La strutturazione centripeta, verticale, delle lingue sassoni, crea tutta una serie di differenze che ne fanno tanti codici dall'incomparabile retrogusto semantico. Le parole composte così care al Tedesco poggiano la loro efficacia sul fatto di annullare, in sé, la distinzione tra soggetto, predicato e complemento, per cui, in esse, è come se le qualità di un ente reale o immaginario — il suo 'carattere' — prendesse un aspetto naterico; non fosse conseguenza di un atto, ma natura del processo per cui l'atto avviene. Nelle lingue sassoni le cose non succedono, accadono. Nel semantema Gesänge c'è il senso di qualcosa che è stato cantato, in tempi anteriori, ed è, quindi, divenuto 'canto': c'è l'idea di un'epopea, di una tradizione che sostiene il canto del singolo individuo. Allo stesso modo, in Unsichtbaren, l'idea dello 'smisurato' evoca la prospettiva di un essere che non può raccogliersi, lui per primo, nei limiti della propria coscienza.

Che Urteil sia 'fondamento', è noto; ma impossibile da esprimere è la sensazione, prima ancora che l'idea, di frammento piovuto da passato, di archetipo quasi biologico, che questo termine evoca nella psiche di un tedesco. Il retrogusto vagamente sinistro di inaffidabilità, di ambivalenza sia logica che etica, di questo 'fondamento', fa di Urteil qualcosa di quasi opposto alla solida matrice immanentista che nelle lingue neolatine il termine 'fondamento' assume.

In questo contesto, l'elisione assume una valenza di sintesi tra denotazione e connotazione. L'inizio della Ballata di Mignon, nel Wilhelm Meister di Goethe, "Es war ein König in Thule", ha la fissità della follia: quell'Es iniziale è un monolite sul limite della ragione cosciente. Non per caso, l'Es sarà la sorellastra non invitata al ballo dell'Ego e del Superego, durante la festa con cui la psicoanalisi sposò la linguistica…Una traduzione italiana ormai divenuta 'classica' commette l'errore di dare al passaggio una valenza fiabesca: "C'era un re / Un re di Thule", che, rifiutando la potenza ermetica dell'elisione, scioglie la catena degli 'effetti collaterali' in nome in una scelta di campo ben precisa: "a Thule, al tempo delle favole", per parafrase l'inizio della Turandot di Carlo Gozzi. Ma, se Goethe avesse voluto alludere alla fine dei tempi? Se quel re fosse l'unico, solitario, uomo sulla terra, e dunque il suo potere rappresentasse una ridondanza, una beffa della natura che quell'incipit ellittico intende travestire da apparenza di senso? Thule rima con Bühle; la morte dell'amata ha tolto al re l'unica possibilità di senso. Thule è la follia; quel pazzo solitario sullo scoglio dell'insensatezza si crede re… Ecco perché, nella cultura sassone, la fiaba è il regno dell'incubo: la fissità archetipa dei simboli propria al pensiero 'selvaggio' dell'infanzia permette al linguaggio dei reperti, all'ellittico monumentalismo delle lingue sassoni, di sprigionare tutta la propria potenza.

Di fronte a tutta questa complessa rete di problemi, bisognerebbe avere il coraggio di rispettare la monoliticità delle parole composte: quel processo per cui, in Tedesco, la materia pensa, ed ogni ricomposizione di termini in un nuovo semantema ha il fascino del nuovo. Così, "ich blicke nach Osten, befreien" implica l'orizzonte dell'Est come percezione, ma anche prospettiva esistenziale; allo stesso tempo, però, allude anche a qualcosa che, ad Occidente, mi inibisce di guardare l'orizzonte. Da questo muro, se vado ad Est, io vengo 'liberato', 'befreien': ma questa liberazione avviene solo 'nach', come conseguenza di una limitazione subita, e forse accettata. Dunque, la traduzione più pertinente sarà: "Seguo con lo sguardo il paesaggio d'Oriente, i suoi liberi profili", permutando al paesaggio ciò che parrebbe il carattere del soggetto; quasi un destino, nel momento in cui la sua contemplazione paesaggistica diventa sguardo interiore. Questa semplice frase, tremendamente ellittica, è l'incipit di un romanzo recentissimo che mi è appena capitato tra le mani: la scelta di campo del traduttore influenzerà la percezione del protagonista, la sua esatta topografia d'ambienza: il rapporto tra spazio, tempo e coscienza, in tutta la visione interiore che il lettore avrà del progetto narrativo susseguente. In casi simili, il problema non è linguistico, ma immaginativo. Il traduttore deve essere il luogo di analisi delle ambiguità, di loro scioglimento in dimensioni coerenti, dove il viluppo diventi sviluppo, ed, infine, di ricombinazione delle loro aporie in un viluppo ('semantema') capace di sviluppare allo stesso grado esplosive implicazioni d'opposti: un processo linguistico che poggia su di un Urteil culturale, per produrre, infine, in chi legge, uno straniamento di segno opposto tra senso e significato. Si comprenderà fino a che punto la coscienza del traduttore, in questo gioco di specchi in cui ciò che è convesso per lo scrittore diventa concavo per il lettore, si debba sentire come la maschera di Escher, chiusa in quelle palle di vetro dove il pittore fiammingo proietta le prospettive dei suoi mondi ricorsivi, in cui solo Achille e la Tartaruga possono sentirsi a loro agio, mentre, correndo, tentano il record dell'omicron lanciato.

Il problema maggiore, dunque, è la salvaguardia della densità semantica, effetto ed insieme espressione di un ben preciso progetto drammaturgico. Un'altra distinzione di merito che può tornare utile allo scopo è quella tra lingue 'esclusive' e lingue 'esplicative'. Nel Greco antico, le particelle propositive con cui inizia una frase potrebbero parere esplicative, con quel loro porre un 'dunque', 'infatti', 'perché', all'inizio di un discorso le cui valenze non sono ancora state esposte. Anche in Latino, 'nam' ha spesso una funzione di questo tipo. In realtà, si tratta di allusioni ad una dimensione argomentativa, che, in quanto procedente dalla coscienza analitica dello scrittore, viene considerata antecedente la fase dichiarativa vera e propria. Anche l'Inglese antico ha esempi molteplici di questa strategia, particolarmente evidenti nel 'for' con cui cominciano certe 'moralità' di Shakespeare (allo stesso modo si comporta 'und', nella Bibbia di Lutero). In questo caso, l'elisione viene ottenuta, paradossalmente, attraverso una ridondanza dei mezzi espressivi. Nelle lingue 'esplicative', invece, l'articolazione del discorso procede sempre da una percezione spazio-temporale esatta del discorso. La causa di questa distinzione risiede nella maggiore o minore influenza che la concezione dei verbi, nelle lingue arcaiche, ha avuto sulle lingue moderne. Nelle lingue antiche, i verbi non hanno tempi, ma solo 'aspetti': indicano le conseguenze che un'azione avvenuta nel passato hanno sugli eventi del presente. L'Aoristo greco ed il Perfetto latino significano che un evento sta alla base di una successione di eventi che procedono da esso, logicamente ed indefettibilmente, nel presente. È dunque inevitabile che lingue come il Tedesco, ed, in certa misura, l'Inglese, presentino un grado di elisione maggiore rispetto alle lingue cosiddette 'neolatine', le quali, di fatto, hanno trasgredito questo carattere delle loro lingue madri.

Così, in Francese, il soggetto che compie un'azione viene inserito come particella epesegetica all'interno dell'azione descritta. Sotteso al discorso, in Francese, c'è sempre un interrogativo su chi compie quella certa azione, descritta nella sua eterna immanenza temporale. Ecco perché Verlaine poté dire: "de la musique avant tout chose"; perché il Francese deduce il soggetto dalla situazione fattuale, e non lo impone apoditticamente, come fa, invece, l'Inglese. Quando Baudelaire scrive: "Les sons et le parfums tournént dans l'air du soir", la traduzione di questo verso in lingue più 'verticali', più 'esclusive', dovrà insistere sull'effetto del turbinio, visto come totalità percettiva, piuttosto che sulla descrizione di un evento. Infatti, qui, Baudelaire vuole eliminare il più possibile il punto di vista, la percezione che un singolo spettatore possa avere di un fenomeno visto come alternativo rispetto alla coscienza umana. La lingua francese è la lingua dell'hazard. Tradurre Mallarmé diventa, in questo senso, una lotta contro lo spazio bianco; una edificazione dell'elisione a momento forte dell'argomentare proprio in grazia della sua assenza, all'interno di un discorso, di qualsiasi punto di vista. L'affermazione di Rimbaud: "Io è un altro", sintetizza il margine di intraducibilità di qualsiasi discorso poetico, se espresso in una lingua che, come il Francese, 'pensa se stessa'.

Alfred Jarry ha coniato un termine che riassume tutta la nostra argomentazione: "Patafisica": si tratta di una disciplina 'a lato' della Fisica, e non 'sopra' la Fisica, come la Metafisica, etimologicamente, significa. Nella Patafisica il linguaggio disarticola se stesso; vuol dire solo se stesso. Il dottor Faustroll di Jarry è il traduttore ellittico per eccellenza, secondo una lezione che poi Queneau, nei suoi Esercizi di Stile, ha eretto a sistema. L'elisione, in questa aurea operina, celebra il proprio trionfo. Le cento maniere diverse per raccontare un incontro in sé alquanto banale diventano un'indagine filosofica su come la nostra presunzione, in quanto lettori, del senso, produca il senso di quanto veniamo leggendo. Solo la 'variazione' in linguaggio matematico, quella in interiezioni, e quella in 'stile' algebrico rimangono universali. Provarsi nella traduzione degli Esercizi diventa, per un traduttore letterario che voglia sentire, prima che capire, sulla propria pelle il problema dell'elisione, un esercizio imprescindibile. Alfred Jarry, nelle Gesta ed opinioni del dottor Faustroll, patafisico, riassume l'intera questione in una battuta: "Un epifenomeno è ciò che si aggiunge ad un fenomeno". Non conosco traduzione migliore di ciò che significa rispettare il potere dell'elisione, in una traduzione letteraria.

Infatti, se definiamo l'epifenomeno il processo di coscienza che, come un basso continuo, precede ed accompagna la descrizione dell'evento, comprenderemo che ogni opera letteraria parte da una presunzione di senso che comporta un processo ellittico a priori. Come la Patafisica di Jarry, la traduzione, allora, è la "scienza del particolare esatto in un contesto immaginario". Ed ecco la conseguenza della 'degenerazione' del linguaggio, dal mondo 'centripeto' delle lingue arcaiche a quello 'centrifugo' delle lingue moderne. Mentre i Latini dicevano "tenet res, verba sequentur"; "se sai che cosa vuoi dire, le parole sgorgheranno spontaneamente da te", la possibilità stessa di fare poesia, nelle lingue moderne, nasce dal principio opposto: sono i verba a connotare le res. Ecco perché la poesia moderna è, prima di tutto, poesia di idea; ed è, quindi, sommamente ellittica. Heidegger chiama tutto questo processo Holzweg: il sentiero interrotto, che si perde nei boschi. Si tratta di un'espressione ellitticamente efficace. Peccato che sia del tutto intraducibile in qualsiasi altra lingua.


d) L'enfatizzazione

Da quel catalogo delle navi con cui, nell'Iliade di Omero, si riassume la composizione degli equipaggi che partono per la guerra contro Troia, in poi, la letteratura ha spesso utilizzato la caratterizzazione enfatica delle vicende attraverso due procedimenti: la descrizione fisica e la inflazione dinamica. Per dimostrarne la differenza espressiva, prendiamo due scrittori francesi di età e cultura diverse: Flaubert e Rabelais. La descrizione del farmacista Homais, nella Bovary di Flaubert, culmina in due occhi acquosi dentro cui la luce dell'intelligenza ( raison) è sostituita da quella della nozione (information). Qui, il concetto di 'informazione' richiama, per assonanza, la 'stampa' periodica, flagello di una Parigi come quella di fine Ottocento, in cui l'opinione pubblica dettava legge su mode e costumi. In una traduzione italiana, allora, sarà fondamentale sottolineare come, nel farmacista, il 'saper che cosa dire' prevalga sul senso del 'cosa dire', secondo un'opposizione tra cultura e convenzionalismo di facciata che sta sottesa a tutta la macchietta del personaggio. E allora, bisogna scrivere: 'I suoi occhi acquosi sapevano che cosa si dovesse dire', oppure 'sapevano che cosa andava detto', ma non 'sapevano esprimersi'. Gli occhi, in questo caso, enfatizzano un'ambiguità che è tanto più fisica in quanto, prima di tutto, semantica. In uno dei passaggi più intensi del romanzo, Madame Bovary, ormai intenzionata ad uccidersi, si reca in confessione dal curato del villaggio, il quale, allarmato dalla disperazione della donna, non le sa ammannire che stinti precetti evangelici. In questo caso, i richiami ai Salmi vanno recuperati con attenta filologia testuale, riprendendoli da un linguaggio 'patavino', un gergo provinciale intriso di luoghi comuni e proverbi, tutto fratto ed ansante, ed, in quanto tale, ben diverso dal lessico altrettanto convenzionale, ma mutuato sui poeti romantico-parnassiani più deteriori (in particolar modo, Gauthier) tanto invisi a Flaubert da metterli in bocca, onde solennizzarne il crollo fisico, alla sua eroina.

Del tutto opposto il caso di Rabelais. Il Gargantua e Pantagruele è spesso attraversato da epiteti che i due protagonisti si rivolgono in un contrappunto osceno dall'infantile comicità: in un caso, al gergale 'con' (il membro maschile) seguono cinquantaquattro aggettivi qualificativi che attingono a tutti i codici del linguaggio, da quello sensoriale-gastronomico a quello teologico-filosofico. L'enfatizzazione, qui, persegue un intento opposto a quello di Flaubert: vuole far perdere di vista al lettore il riferimento con la situazione contingente, per sommergerlo in un mondo 'tautologico', materico, liberatoriamente percorso in un solo colpo d'occhio.

Nel caso di Flaubert, il traduttore dovrà attenersi al suo orecchio interiore ed alla sua visione interna della scena per rendere con la massima efficacia possibile lo straniamento tra la ricerca apparentemente elettiva, del linguaggio impiegato e la situazione di oscenità morale in cui l'azione precipita; nel caso di Rabelais, si ricercherà, invece, la più pura meccanicità denotativa, del tutto immune da ogni articolazione di soggetto e complemento: da ogni 'azione drammatica'.

Per rimanere nell'ambito della Letteratura Francese, un caso intermedio è dato dal celebre 'monologo del naso', nel Cyrano di Edmond Rostand. La successione di attributi che il protagonista conferisce al suo 'promontorio' ha un che di rabelaisiano per il connubio tra corpo umano e natura inanimata che li caratterizza, ma il modo in cui il drammaturgo adopera questa elencazione per imprimere a Cyrano un aspetto rodomontico, un'innata enfasi del carattere che cela un senso di inferiorità decisivo per gli eventi futuri del dramma, fa intuire come l'opera risalga all'età del 'realismo borghese'. Per un traduttore, la difficoltà maggiore nasce dal fatto che, in molti casi, Rostand fa riferimento ad utensili dell'arredamento domestico, da caffettiere a stirabaffi, o a manufatti del vestiario, ombrelli e ganci per vestiti, attualmente del tutto scomparsi, e che vanno quindi rimpiazzati con arnesi che siano riconoscibili all'esperienza quotidiana dei lettori. L'effetto comico, infatti, qui nasce dal contrasto tra l'umiltà oggettuale dei paragoni, tipici di una cultura materiale ancora di estrazione contadina, ed il tono epico con cui essi vengono investiti di una dignità simbolica, come fossero parti di uno di quegli uomini artificiali che Arcimboldo, nei suoi dipinti, realizzava assemblando viti, bulloni, livelle e piante ornamentali.

Uno degli incipit più difficili della letteratura universale è quello de L'Uomo senza Qualità di Robert Musil. L'azione si svolge a Vienna, in un giorno qualunque di primavera. Onde far percepire fino in fondo la genericità del situazione, ed, insieme, la disumanizzazione esistenziale in cui i personaggi si trovano a percorrere il loro frenetico quanto stolto peregrinare tra le vie della città, Musil descrive una complessa situazione meteorologica, indugiando sulle isobare, le isoterme, i meridiani ed i paralleli il cui intersecarsi connota il cielo - per quel giorno, limpido - di Vienna. Si tratta di un passaggio stupendo, in quanto, qui, la denotazione più nitida e neutra diventa, paradossalmente, connotazione patetica di un'umanità perduta dietro a vani sogni. Musil articola la sua descrizione per periodi tutti uguali, tutti composti da una principale ed una subordinata; solo che, per la particolare caratteristica del Tedesco di consentire un'assoluta identificazione tra temporale e causale, l'effetto colto da un lettore in lingua originale è quello di un 'weil' subordinante che, da un atteso 'per cui', assume via via la valenza di un 'al contempo'. Ne deriva una frustrazione del senso, sostituito dall'immanenza del vuoto scorrere del tempo. Non si poteva dare espressione narrativa più lucida al problema, posto negli stessi anni Venti da Heidegger, della non convergenza tra Sein e Zeit: 'Essere' e 'Tempo'. Come rendere un gioco di specchi di questo tipo? Rendere 'weil' con 'nel tempo conseguente' è solo un suggerimento, ma un attento studio del passo ci permette di comprendere un potente effetto retorico dell'enfatizzazione: la perdita della posizione centrale della coscienza all'interno del processo descrittivo.

Al principio de L'Eletto, Thomas Mann descrive lo scampanio ossessivo con cui, a Roma, viene celebrata l'elevazione al soglio pontificio di Gregorio: l'incestuoso peccatore della cui vicenda di redenzione narrerà, burlescamente, il romanzo. La maniera icastica con cui viene segnalata la ripresa, da una chiesa all'altra, del suono, aderisce alla maniera di Rabelais; anche qui, dunque, abbiamo una progressiva dissociazione tra un'azione umana ed il suo significato sociale: un progressivo disumanizzarsi del rito, fino a che questo non assume una valenza contraria. Ed infatti, lungo tutto il romanzo, le voci immateriali e le sonorità angeliche che guideranno Gregorio alle tappe del suo peccato saranno seduzioni diaboliche travestite. Suono come rovesciamento di segno etico, dunque. E allora, tradurre l'incipit con 'suonar di campane' diventerebbe una mistificazione; si prediligerà, invece, la enfatizzazione 'campane, campane dal suono disteso; su tutta Roma, campane'. Naturalmente, soltanto una lettura per intero del romanzo renderà evidente questo artificio retorico. Gli inizi enfatici sono, proprio per la loro intensità icastica, dei pessimi consiglieri, per i traduttori.

Chi abbia scorso una traduzione dei Promessi Sposi in lingua inglese si sarà accorto di come il lunghissimo periodo con cui inizia il Primo Capitolo venga solitamente risolto in una serie di incisi descrittivi che richiama il paesaggismo disincantanto di Jane Austen. A forza di porre Manzoni a modello scolastico di stile, si rischia di mal comprendere le ragioni del suo operare. Il romanzo comincia con la descrizione di una distesa d'acqua immobile: il lago di Como, osservato nella sua distesa lontana di montagne, vallate e serpentine d'affluenti che si confondono con l'azzurro del cielo. Ad un certo punto, una data viene ad interrompere questo fluviale scorrere indifferenziato del tempo: a quella data corrisponde un muretto eretto sulle dorsali di un colle; per quel muretto corre una strada, e per la strada se ne viene Don Abbondio. Dunque: la civiltà materiale come storia - e, in quanto tale, male, perché corruttibile - contro la serena atemporalità della natura, non costretta entro nessun limite, serena perché generata prima ed a prescindere da ogni contrapposizione dialettica. Il periodo iniziale è l'espressione di una continuità indifferenziata che impiega le parole per rimandare ad una verità preverbale. In questo caso, l'enfatizzazione ascende ad un terzo grado di densità (ogni svolta dell'ambiguità denotativa corrisponde, in essa, ad un'elevazione del livello allusivo): un misticismo simbolico raggiunto attraverso l'ironia sui codici referenziali più diretti. Un cortocircuito linguistico bello e buono, che viene sconvolto dal di dentro se, nel tradurre questo 'polpettone' iniziale furbescamente autocompiaciuto, se ne smussa la lucida pesantezza.

Sarebbe percepibile, ad un pubblico anglosassone, un simile 'controtesto'? A giudicare dai giochi linguistici di Chaucer, sì. Dunque, soltanto ricorrendo ad arcaismi 'strategici' pare possibile risolvere un nodo immanente alle diverse maniere con cui la cultura linguistica italiana e quella inglese delineano il rapporto tra codice e controtesto. Una verifica secondo il percorso opposto dell'assunto viene dal tradurre i Racconti di Canterbury di Chaucer in Italiano: risulterà quasi impossibile non incorrere in connotazioni desunte dal Boccaccio, mentre, invece, la provenienza dall'area bretone e sassone delle vicende esclude riferimenti linguistici derivati al Medioevo italiano dalla vicinanza col Sacro Romano Impero ed i suoi imprestiti neolatini.

Terminiamo con un esempio riassuntivo: la Ballata del Vecchio Marinaio di Coleridge è strutturalmente basata su di una figura enfatica semantico musicale: 'Water, water everywhere', che, se tradotta con 'acqua, acqua, ovunque' dà l'idea di un'abbondanza, piuttosto che di una carenza. Questa morte di sete in mezzo all'acqua salata scatena un gioco di enfasi sull'ambiguità degli elementi, dove l'opposizione acqua dolce/acqua salata riprende quella civiltà/natura. L'enfasi, qui, è più vicina al tipo di Rabelais che a quello di Flaubert. 'Mare, ovunque mare' ha connotazioni melodrammatiche quasi risolutive. 'Il mare ovunque disteso' ha movenze neoclassiche ed elegiache antipatetiche. Si potrebbe tentare un 'E il mare, il mare in ogni dove', con quel senso di incunearsi meccanico che evoca ad un tempo il desiderio di acqua ed il timore di affogare. Lo scioglimento del problema, comunque, passa attraverso la percezione interiore del traduttore, qui chiamato, come ovunque sussista un livello di enfatizzazione, a farsi partecipe del cortocircuito tra senso e significato, per poi rendere la sensazione del paradosso antidialettico secondo una nuova strategia, legata agli elementi che, entro l'ambito della propria cultura nazionale e personale, possono produrre un analogo fenomeno di straniamento. Il problema risulta estremo in opere che, come i Fiori Blu di Raymond Queneau, sono progressioni articolate ed inarrestabili verso l'enfasi del codice linguistico rispetto alla nuda espressione referenziale della vicenda narrata. La traduzione di quest'opera in Italiano è un 'hic sunt leones' in cui ogni traduttore dovrebbe, prima o poi, perdersi, per poter dire 'emphasys, emphasys everywhere'.


 



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