a) L'intensificazione del sentimento
La differenza tra simbolo e metafora ha a che fare con
l'interpretazione. La metafora appartiene al contesto culturale in cui viene
elaborata, e può, quindi, venire decodificata con una certa sicurezza normativa.
Il simbolo è misterioso, sfuggente, inattingibile. Uno degli eventi
'catastrofici' che possono avvenire in una determinata cultura è la degradazione
del simbolo a metafora. Prendiamo un esempio inquietante: la swastika è uno dei
simboli più antichi e nobili che siano mai stati elaborati. Allude all'uroboro:
il serpente che si mangia la coda, espressione della circolarità del tempo, e,
quindi, all'eternità. Adottata dal Nazismo come emblema del "Kraft nach Freude",
quella "forza attraverso la gioia" che era il motto della Luftwaffe, la swastika
viene, oggi, associata, nell'immaginario collettivo, ai campi di concentramento.
In questo senso, ogni volta che la letteratura si impadronisce di un simbolo, e
lo pone ad emblema poetico di una visione 'di scorcio', trapassandolo a
'manifesto' politico, siamo di fronte a cattiva letteratura. La caratteristica
della letteratura cattiva, anzi, è quella di voler sempre e comunque
interpretare il simbolo come metafora. Per fortuna, queste operazioni svelano la
loro debolezza nella caducità dei risultati. Quando Christa Wolf scrisse Il
Cielo Diviso, la scissione della personalità poteva, rispecchiandosi nel
Muro di Berlino, trovare nella storia un simbolo per esprimere il vero dramma
'politico' insito in ogni essere umano: il dover adottare, nella vita, molte
maschere. Eppure, la insufficiente drammaturgia della scrittrice si rivela nella
sua ricerca di autenticazioni politiche ad un'intuizione quasi sacrale: quella
della scissione interiore in cui ogni uomo trascorre la propria vita. Quindi,
proiettare un simile inesprimibile enigma sulla marmorea solidità del Muro,
diventa, paradossalmente, una strategia di compensazione.
Ben più coraggio mostrano quegli scrittori che adottano
l'artificio dell'ambiguità. In Tristano e Isotta, Gottfried von Strasburg
attribuisce l'innamoramento fatale tra il cavaliere e la sposa promessa di re
Marke, ad un filtro. Secoli di materialismo ci separano da questa intuizione, ma
appare chiaro che lo scrittore, qui, allude ad un'ispirazione sovrannaturale che
viene simboleggiata in un liquido, allo stesso modo in cui la Divinità, secondo
Proco, è "un fluido sospeso intorno alle tempie, che penetra negli spiriti
dell'anima". I "secoli bui" avevano metafore di luce di una raffinatezza a noi
incomprensibile.
Un traduttore letterario deve, dunque, conoscere con estrema
esattezza la natura di una strategia retorica, se sia metafora o simbolo.
Platone paragona l'anima ad un carro trainato da due cavalli, uno bianco, che
tira verso l'alto, ed uno nero, attratto dall'abisso. Il primo è l'anima
sensibile, il secondo quella concupiscibile. In Grecia, durante i Giochi
Olimpici, la gara più elitaria era la corsa delle bighe con tiro a quattro. La
velocità delle vetture dipendeva dalla frizione dei mozzi contro l'asse. Più
l'asse girava libero, più era probabile la vittoria, ma a prezzo di un rischio
sempre maggiore. Il numero dei cavalli neri presenti nella pariglia dipendeva
dal grado di tensione del mozzo sulle ruote. Nel Fedro, dunque, Platone
adopera una normale, leggibilissima metafora. Solo che a noi appare un simbolo,
e tendiamo a sovraccaricarla di significati cui il filosofo non ha mai alluso.
Nel Dottor Jekill, Stevenson ribalta il simbolo del filtro, da mediatore
tra il mondo degli dei e quello degli uomini, a porta aperta sul mondo degli
inferi. Il filtro, in lui, diventa espressione del delirio, della malattia,
della scissione della personalità. In Gottfried von Strasburg, no. Perché? Nel
Tristano, il filtro sopraggiunge a coronamento di un gioco di sguardi in
cui l'anima dei due amanti pare diventare "liquida". In Stevenson, il filtro è
l'esito finale di una volontà suicida, nello scrittore medioevale esso è via di
fuga dal mondo, rappresentazione di una festa perenne dei sensi. In un mondo
come quello del Medioevo, gli spiriti occhieggiavano da ogni angolo dell'anima i
rituali umani, e trasportavano gli eventi in una dimensione trasfigurante il cui
codice era sepolto nel linguaggio segreto degli specchi. Stevenson scrisse il
Dottor Jekill come atto di denuncia della meccanizzazione a cui l'uomo
veniva sottoposto, nella nascente civiltà delle macchine. Nel mondo smateriato
di Gottfried, una simile denuncia è semplicemente inconcepibile. La metafora,
per lui, è individualismo, e quindi si situa al di fuori del contesto
espressivo.
Esiste un modo infallibile per comprendere se un'immagine è
simbolo o metafora. Nel primo caso, non veicola 'drammaturgia'; non allude, non
suggerisce. Semplicemente, è; produce senso col suo nudo apparire. Le vie
del simbolo passano attraverso l'emozione; essa, lungi dall'essere
rappresentazione di contenuti intellettuali, è verità la cui comunicazione
diventa sensazione nel momento stesso in cui si veste di suoni o di colori. Nel
Parsifal di Wolfram von Eschenbach c'è la descrizione di una cerimonia di
accoglienza in cui viene compilato un vero lapidario di pietre preziose, a base
di topazi "Blaueaugen Wasserflut" o carniole "Rotenlippenden". Le nostre
consuetudini descrittive portano allo scioglimento delle comparazioni in vicende
narrative, per cui i traduttori moderni rendono la prima espressione con "acque
azzurre come occhi cerulei" e l'altra con "pietre rosse come labbra",
trascurando il fatto che la seconda maniera per distinguere tra simbolo e
metafora è far caso al potere agglutinante della figura retorica. Il simbolo non
scioglie la fisicità della polisemia; in altre parole, la traduzione del primo
sintagma è "occhi azzurri trasparenti d'acqua in rivoli" e quella della seconda
"atteggiate come rosso di labbra", con allusioni ad un sorriso sovrannaturale.
Il simbolo, insomma, la cui natura parrebbe così elitaria ed
elusiva, è, in realtà, una trasposizione immediata della sensazione fisica.
Un'altra distinzione morfologica tra simbolo e metafora
riguarda la loro dimensione temporale: il simbolo riassume un intero destino in
una figura fuori del tempo, la metafora accompagna, narrativamente, l'evento,
dalla sua genesi all'esito finale. Un artificio retorico che accompagna il
simbolo è l'antonomasia: così, Don Chisciotte è "Hidalgo del sombre
semblàr": dove "hidalgo" allude a quelle figure di picareschi questuanti che si
offrivano di scortare i viandanti fino alla località di arrivo, su strade rese
malsicure dai banditi, mentre "sombre" esprime l'appartenenza del personaggio al
regno della notte, dove le identità vanno perdute, e la schizofrenia accampa i
propri diritti sulle Persone. Quanto a "semblar", siamo nel territorio degli
ex-voto, le icone su cui le figure dei Santi venivano fissate ad eterna
edificazione dei posteri.
Nelle culture antiche, ogni simbolo proveniva o introduceva ad
un'allegoria: una personificazione fisica di significati astratti. Ma nulla c'è
di più fisico, più tangibile, nel panorama della cultura antica, di
un'allegoria.
Nell'anno 1600, Tommaso de' Cavalieri mette in scena la
Disputa di Anima e Corpo: un 'melodramma' in cui i due cavalli di
Platone diventano allegorie. In questo caso, ad indicare il fatto che ci
troviamo di fronte a simboli, interviene l'omissione, da parte del librettista,
di indicazioni 'antropocentriche': né volti, né mani, né gesti, qui: tutto viene
espresso attraverso le fogge degli abiti, la gestualità e soprattutto il 'tono'
dei dialoghi. La parola è, nel simbolismo antico, l'essenza metafisica del
'carattere'.
La psicoanalisi junghiana ha teorizzato l'esistenza, al di
sopra dei simboli sacri, di metasimboli che rappresenterebbero i codici secondo
cui la psiche umana elabora la propria visione del mondo, a prescindere da
qualsiasi cultura o stadio di sviluppo. Jung ha definito questa grammatica
innata nella psiche umana "linguaggio degli archetipi". Il linguista Noam
Chomsky, da parte sua, teorizzando la presenza, nell'uomo, di una
predisposizione genetica, una sorta di conoscenza intuitiva, delle strutture
grammaticali, ha seguito Jung sulla sua stessa strada. Come si possono conoscere
gli archetipi? Risalendo alle condizioni prelogiche della mente: dal sogno e la
follia all'invasamento sciamanico. Per esempio, tutte le culture di ogni epoca
alludono ad un diluvio che avrebbe interrotto il corso della civiltà. Tutte,
poi, parlano di un Eden da cui la specie umana sarebbe stata scacciata per una
colpa atavica.
Da non molto, la psicobiolologia ha scoperto che l'ontogenesi
ripete la filogenesi; ovvero, la follia non è altro che un pensiero selvaggio.
Lungi dall'essere irrazionale, essa ripercorre le modalità magiche
dell'atteggiamento con cui le civiltà primitive osservano il mondo. Le culture
arcaiche sono animistiche; vale a dire che attribuiscono agli alberi, le rocce,
i fiumi, e tutto ciò che fa parte dell'ambiente naturale, gli stessi sentimenti
e le stesse emozioni che provano gli uomini. In loro, l'intero universo è un
simbolo senza confini, ed ogni sua interpretazione diventa, proprio per questo,
metafora.
In questo senso, perfino il finale del Faust di Goethe
si muove in un ambito animistico. "Alles Vergängliche ist nur ein Gleichnis",
"Tutto ciò che fugge non è che simbolo": secondo Goethe, la differenza tra
simbolo e metafora sta nel diverso valore che le due strategie retoriche
attribuiscono al tempo. Gli stessi avvenimenti della vita terrena sarebbero
prefigurazioni del vero destino, quello che ci aspetta dopo la morte. Non
diversa è la concezione del mondo che spinge Dante a scrivere la
Commedia. Per lui, l'esistenza umana è "figura" di ciò che l'uomo sarà
nell'aldilà; quindi, del suo vero destino.
Nel Libro Tibetano dei Morti, oppure nelle preghiere
all'egizio dio Ra, la cerimonia delle libagioni, mediante le quali si riempivano
le tombe di generi alimentari, cavalli, gioielli e denaro, non paiono
esemplificate su questo medesimo principio della 'figura'. Quelle civiltà
credevano che l'individuo restasse vivo allo stesso modo di quando il suo
spirito era dentro un corpo: solo che, adesso, aveva acquisito la prerogativa
dell'invisibilità. Per queste culture, dunque, a differenza di Goethe e Dante,
il parametro che differenzia metafora e simbolo è la diversa concezione dello
spazio, inteso come 'teatro dei fenomeni', piuttosto che del tempo, inteso come
concatenazione di eventi. Ecco perché, nelle lingue arcaiche, l'effetto di un
evento ha molto più valore, sintatticamente, della posizione che occupa nella
catena di causa-effetto. Il risultato è che, ad un interprete moderno, risulta
del tutto impossibile rendere le implicazioni occulte nel simbolismo di culture
arcaiche.
L'uroboro, il serpente che si morde la corda, esprime, in tutte
le culture arcaiche, la circolarità del tempo, per cui le ere - gli èoni - si
susseguono l'uno all'altro, nell'immanenza senza redenzione dell'eterno ritorno.
Eppure, il fatto che Nietzsche abbia creduto di elaborare questa stessa teoria -
che appartiene, invece, al substrato simbolico più antico della storia dell'uomo
- la dice lunga sull'obnubilamento verso le culture passate a cui le mutate
condizioni socio-culturali hanno condotto la nostra sensibilità.
Tradurre la grande poesia mitico-sacrale nibelungica, runica,
greco-latina o orientale, dunque, vorrà dire indagare il potenziale trasgressivo
dei suoi simboli per poi ritrovare, nella sensibilità odierna, modelli
altrettanto efficaci e capaci di far esplodere, per la loro concentrazione
sintetica, quelle aporie che non possono non nascere a priori
dall'incontro tra tempo ed eternità, tra la percezione del mondo reale e la sua
trascrizione, da parte dell'inconscio, in archetipi che sono puro concretarsi di
processi onirici. In tal senso, questa stessa definizione è valida anche per
l'interpretazione, da parte di un traduttore, di tutto il mondo simbolico
antico.