d) Epilogo degli epiloghi: Alexander Lurja e il 'principio speranza'
Vorremmo concludere questo percorso nel linguaggio come coscienza, e la traduzione
letteraria come autoanalisi esperienziale, citando un libro commovente di Alexander Lurja, il più grande
neurologo dei nostri tempi. In Un mondo perduto e ritrovato, Lurja racconta la vicenda di un
soldato russo che, colpito alla testa da una scheggia nel 1943, non perde affatto la cognizione delle
parole, ma smarrisce del tutto il senso del contesto entro cui vanno collocate, per prendere significato.
Per lui, insomma, "scarpa" è l'insieme di sei lettere, e non richiama nessun piede, né tantomeno i
calzini. L'esperienza descritta da Lurja è illuminante: il cervello del suo paziente, in effetti, prende
a funzionare come quello di un traduttore automatico. Ma ancora più affascinante è il modo in cui lo
scienziato riabilita il soldato alla comprensione del mondo: fa riaffiorare le emozioni, gli odori, le
percezioni di caldo e freddo, luce e ombra, tenerezza e stizza, che lo hanno accompagnato, bambino, nel
suo progressivo orientarsi tra i confini di un mondo esteriore che era così diventato, a poco a poco,
anche il suo mondo interiore. Ed il limite, il codice 'traduttivo' tra i due mondi, era il linguaggio
come 'apportatore di significato'.
Soltanto l'emozione, ci insegna Lurja, ci salva dall'insensatezza del mondo. Senza l'emozione, il
linguaggio traduce questa insensatezza in una catena di enunciazioni cui sia stato tolto il loro oggetto,
e che quindi, alla stessa maniera di un atomo cui sia stato tolto il nucleo, collassino all'interno di
se stesse.
Spero che questo Corso di traduzione letteraria vi abbia comunicato quello sfrontato coraggio
senza il quale nessun traduttore può ottenere di rendere un testo vivo e pulsante: il coraggio di usare
la pagina scritta da un altro, nella sua lingua, come specchio alle proprie, irripetibili emozioni.