b. La lingua letteraria come visione di scorcio
La lingua d'uso si differenzia da quella letteraria per la natura della
'visione' che veicola. Nella lingua d'uso, la visione ha, come
valore, l'oggettività; in quella letteraria, la
soggettività. Vale a dire che nella lingua letteraria le implicazioni, le
suggestioni di quanto si dice, hanno più valore di quanto si dice.
L'intenzione prevale sull'espressione. Il desiderio di venire
- per così dire - equivocati ha più importanza della
chiarezza. L'efficacia è la ridondanza, l'aura che si
proietta intorno al testo. Il senso, in letteratura, è il significato.
Che cos'è la visione di scorcio?
Se entriamo in una cattedrale gotica, il ripetersi, con lievi scentrature,
dei transetti e della teoria di colonne, culminante nei rosoni, suggerirà
l'impressione di tante diverse cattedrali - ognuna identica come
modello, ma diversa come struttura - quanti sono i possibili punti di
vista dell'osservatore. La cattedrale gotica cerca di fare, del tempo,
spazio. Di suggerire l'uscita dal tempo, così come la vita umana
è destinata a culminare nella serenità uniforme della Città
di Dio. Il primo requisito della visione di scorcio, dunque, è la sua
stilizzazione degli elementi fondamentali del discorso, al fine di poterli
liberamente ricombinare e sovrapporre. Se consideriamo la nostra memoria, sia
individuale, che collettiva, come lo spazio di una cattedrale, ci porremo
già nella dimensione più adatta ad una ideale psicologia del
traduttore. Perché? In effetti, si tratta del processo che sta alla base
di ogni atto creativo letterario. L'esempio più illuminante
è quella cattedrale gotica di parole in cui, idealmente, consiste la
Recherche di Proust, dove le stesse cose: campanili, marine, tendaggi,
volti e discorsi, assumono sensi nuovi a seconda dei collegamenti spaziali che
la memoria stabilisce tra loro, a partire dei due punti di vista iniziali: du
cote de chez Swann, du cote de chez Guermantes. Si tratta di due strade, che
portano l'una alla casa di Swann, l'altra ai Germantes: ma è
sulla biforcazione di questi due spazi del pensiero che si articolano i diversi
punti di vista della narrazione. "Del nostro proprio corpo, dove
affluiscono incessanti piaceri e tanti dolori, non abbiamo una visione precisa
come quella di un albero o di una casa o di un passante": così
Proust, che fa del corpo un teatro, una scena su cui proiettare, come le ombre
cinesi di Li Po, gli eventi.
La prima qualità della visione di scorcio, dunque, è la sua
densità. La seconda è la reversibilità, per cui un
particolare precedentemente indifferente assume, poi, un significato rivelatore.
Si pensi a Il Pozzo e il Pendolo, di Edgard Allan Poe. Il
ticchettio che, unica percezione di suono, colpisce la coscienza del
protagonista, al suo risveglio, non assume, all'inizio, alcun significato.
Tutto è avvolto nel buio. Che quel ticchettio sia la discesa
irreversibile di una mannaia lo si percepisce solo man mano che la coscienza del
personaggio ne assume l'evidenza. Allora, retrospettivamente, veniamo a
sapere che la Morte è il rumore del tempo, e quel ticchettio prende la
forza espressiva ed allucinata di un simbolo metafisico, pur non perdendo
affatto la sua evidenza icastica e sensoriale. Nel racconto di Poe, noi
scopriamo lo spazio esterno stando all'interno della coscienza del
protagonista. La terza qualità della visione di scorcio è il suo
essere funzione di un punto di vista.