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21 - Tradurre per il teatro

«[...] i drammi letti soltanto erano a suo avviso qualcosa di morto, un misero surrogato, e quando io per metterla alla prova e per aggravare la mia infelicità insistevo a domandarle: "Anche quelli letti ad alta voce?" lei rispondeva spudoratamente e senza il minimo riguardo: "Certo, anche quelli letti ad alta voce!"»1.

Nella tipologia dei testi da tradurre, il testo teatrale è tra quelli che pongono maggiori problemi per quanto riguarda la plausibilità dei dialoghi e la recitabilità delle battute.

Parlando di traduzione teatrale, occorre distinguere la traduzione per la stampa da quella per la recitazione. Le opere drammatiche, soprattutto i classici, sono anche oggetto di lettura semplice, e in questo caso il traduttore può porsi come dominante non la recitabilità ma la cura filologica per il testo originale e la cultura nella quale è nato. La traduzione teatrale diventa in questo caso un esempio di traduzione letteraria, dove ovviamente prevale di gran lunga il discorso diretto sul discorso indiretto, e dove quindi tutte le preoccupazioni per la traduzione dei dialoghi sono legittime.

Ma quando la traduzione viene realizzata per la drammatizzazione dell’opera, i criteri di recitabilità diventano fondamentali. Ecco quello che ha scritto Pirandello parlando del drammaturgo, che io estendo al traduttore di drammaturgia:

Ma perché dalle pagine scritte i personaggi balzino vivi e semoventi bisogna che il drammaturgo trovi la parola che sia l’azione stessa parlata, la parola viva che muova, l’espressione immediata, connaturata con l’atto, l’espressione unica, che non può esser che quella, propria cioè a quel dato personaggio in quella data situazione; parole, espressioni che non s’inventano, ma che nascono, quando l’autore si sia veramente immedesimato con la sua creatura fino a sentirla com’essa si sente, a volerla com’essa si vuole (1908: 235).

Secondo Luzi, la prova del fuoco del palcoscenico è quella che rivela la bontà di una traduzione. Il palcoscenico funge da amplificatore non soltanto delle soluzioni buone, ma anche di quelle infelici, determinando momenti di imbarazzo nel teatro. Tale possibilità di verifica concreta è considerata da Luzi una fortuna rispetto ai problemi della traduzione poetica. In questa infatti l’arbitrio del traduttore è totale, e non si ha nemmeno un confronto diretto con un pubblico.

Il palcoscenico rivela perfino quella capillare drammaturgia che un testo di vera poesia drammatica nasconde alla lettura tra le sue pieghe, sia nell’estensione meditativa sia nell’appiattimento interlocutorio del discorso: permette insomma al traduttore di toccare con mano oltre all’azione esplicita anche la filigrana poco visibile della drammaturgia interna e diffusa proiettandone sulla scena le conseguenze concrete [...] Il palcoscenico registra come un sismografo le variazioni d’energia del linguaggio (1990: 98).

Questa similitudine del sismografo è estendibile in generale alla revisione e allo spirito autocritico del traduttore. Il fatto di avere – in potenza o di fatto – un pubblico che ascolta il testo prodotto mette in risalto le falle del proprio lavoro e permette maggiore lucidità critica.

Nella traduzione teatrale si tocca quindi l’apice della sensibilità del traduttore per la freschezza e la plausibilità dei dialoghi. Una battuta di dialogo poco plausibile in bocca a quel personaggio in quell’opera si ripercuote negativamente sul lavoro dell’attore, che non riesce a immedesimarsi nella parte e a recitarla bene.

Una percentuale non indifferente della produzione drammaturgica contiene elementi dialettali, slang e gergo. Qui il traduttore deve decidere se propendere per una ri-creazione di tali elementi con dialetti, slang e gergo locali della cultura ricevente.

Il problema del dialetto è molto complesso da affrontare. Spesso accade che l’uso posticcio del dialetto (come avviene quando è il traduttore ad attribuire un certo dialetto a un personaggio) crei effetti di burlesque anche quando non sono desiderati. Ma il guaio più grosso è che lo spettatore finisce per avere un’idea falsa dell’opera teatrale, pensando magari che non sia un’opera tradotta, dal momento che vi riconosce una parlata dialettale del proprio paese.

Un modo per risolvere il problema (o quanto meno non aggravarlo) consiste nell’uso dei sopratitoli. L’opera viene recitata nella lingua originale, e sopra il palco scorre una scritta luminosa contenente la traduzione delle battute. È una soluzione usata da alcune compagnie teatrali in modo sistematico. Per esempio, il Malyj Teatr di Pietroburgo, sotto la regia del grande Dodin, quando va in tournée per il mondo, recita in russo con sopratitoli, e se tale medium affatica il pubblico, di certo non lo scoraggia dal seguire con passione le sue rappresentazioni, che in certi casi giungono a durare diverse ore e a essere divise in due serate.

È molto diffusa anche la riscrittura creativa, spesso affidata a drammaturghi della cultura ricevente. Qui il prototesto viene preso come griglia, come schema, sul quale liberamente viene costruito il metatesto. Tale procedura è particolarmente in voga nelle culture nelle quali prevale il gusto dell’intrattenimento sulla curiosità culturale per il diverso e il nuovo. Perciò nella commedia, in generale, soprattutto in quella non classica ma contemporanea, se si considera che la dominante del metatesto debba essere il puro divertimento a scapito della riconoscibilità delle origini culturali dell’opera si può procedere a rifacimenti quasi completi, con ricostruzione dei riferimenti culturali, mutati avendo per oggetti la cultura ricevente.

Lo spettatore modello di queste operazioni ha scarse pretese e interessi culturali, va a teatro per farsi quattro risate, più per un esercizio fisico che mentale. D’altra parte i critici teatrali in certi casi si adattano talmente al proprio milieu culturale che finiscono per non rendersi conto di avere delle pretese quanto mai stravaganti sui traduttori e gli adattatori. Anderman cita il caso di un critico francese:

Quando The Caretaker di Pinter è stato allestito in traduzione in Francia, un critico francese ha reagito negativamente a Davies, il barbone, che beve il tè. Avrebbe preferito vederlo bere del vino dal momento che in Francia «il tè è una bevanda bevuta principalmente dalle vecchiette dell’alta borghesia» (1998: 72).

Questo critico francese ha una bassissima considerazione per gli spettatori a lui connazionali. Si figura che non riescano a capire che il tè in un dramma britannico ha un senso preciso in quel contesto, e ha la presunzione di modificare il testo teatrale niente po’ po’ di meno che del grande Harold Pinter.

Resta tuttavia valido il pensiero del poco tempo a disposizione del pubblico in teatro: Se a casa un lettore ha tempo di riflettere sugli elementi che non conosce e anche di consultare opere che gli vadano in aiuto, a teatro tale possibilità manca. Ciò significa che, senza considerare necessariamente il pubblico ignorante, pigro e oligofrenico, può essere necessario fornirgli gli strumenti per capire almeno una buona parte di ciò che viene recitato nel momento stesso della fruizione.

 

Riferimenti Bibliografici

ANDERMAN GUNILLA Drama translation, in Routledge Encyclopedia of Translation Studies, a cura di M. Baker, London, Routledge, 1998, ISBN 0-415-09380-5, p. 71-74.

CANETTI ELIAS Die gerettete Zunge. - Die Fackel im Ohr. - Das Augenspiel, München, Carl Hanser Verlag, 1995, ISBN 3-446-18062-1.

CANETTI ELIAS La lingua salvata. Storia di una giovinezza, traduzione di Amina Pandolfi e Renata Colorni, Milano, Adelphi, 1980, ISBN 88-459-0417-2.

LUZI MARIO Sulla traduzione teatrale, in Testo a fronte, n. 3, Milano, Guerini, 1990, ISBN 88-7802-184-9, p. 97-99.

PIRANDELLO L., Illustratori, attori e traduttori (1908), in Saggi, a cura di Manlio Lo Vecchio Musti, Milano, Mondadori, 1939, p. 227-246.


1 Canetti 1980: 176.