b) Il problema della tradizione
Ogni lingua sottende una tradizione. Il gioco di recuperi, allusioni,
parodie, messo in atto da uno scrittore, si profila sempre come gioco di ombre
sulla superficie clastica del linguaggio. Ogni traduttore, dunque, deve essere
prima di tutto uno storico della lingua: la propria, e quella da cui traduce.
Accanto ad ogni scrittore c'è una folla di Sosia, che sono gli
esempi ed i modelli da cui egli attinge, per poi magari, freudianamente,
'uccidere' i propri Padri. Non per niente Joyce,
nell'Ulisse, fa sostenere a Stephen Dedalus l'ipotesi che, in
Amleto, Shakespeare proietti una propria pulsione di morte verso suo
padre... Per evitare che le ombre del passato sulla grotta del tempo
letterario diventino, come in Platone, i fantasmi del tempo reale, il traduttore
deve possedere in pieno i vari 'livelli' linguistici delle due
lingue entro le quali opera. A questo scopo, occorre operare una distinzione
fondamentale tra le lingue 'nazionali'. Esistono infatti lingue
inclusive e lingue esclusive; ogni lingua è ascrivibile in una di queste
categorie soltanto a partire dal rapporto in cui si pone rispetto al proprio
ceppo d'origine. L'Inglese, per esempio, è inclusivo rispetto
al Sassone; il Tedesco, esclusivo. Nel primo caso, le strutture sintattiche
costruiscono un codice alternativo rispetto al modello neolatino; nel secondo,
le articolazioni del Latino divengono il 'materiale di costruzione'
del senso. In Inglese, di conseguenza, è la lingua d'uso a dar
forma a quella letteraria; in Tedesco, come in Italiano, avviene il contrario.
Questo comporta il fatto che, in Inglese l'eccezione, la deroga, siano
connotazioni dello stile letterario; in Tedesco, a parte alcuni luminosi esempi
(Jean Paul, Hoffmann, Kafka) questo non avviene. Ne consegue, per un traduttore,
la necessità di comprendere che cosa sia, lingua per lingua,
'norma', e che cosa 'artificio', tenendo presente che
l'arte è, semanticamente, sempre artificio.
Le lingue esclusive tendono a vedere negli arcaismi altrettante patenti di
nobiltà linguistica. La base sassone che riaffiora nel Tedesco moderno
assume sempre connotazioni - più o meno romanticheggianti -
di nobiltà, vittoria, eroismo. In Italiano avviene il contrario, come ben
sa chiunque conosca le farse di Giulio Cesare Croce, col suo Bertoldo, o
abbia letto la Secchia Rapita di Tassoni... Ma anche il caso di
Sterne, in Inglese, conferma questa regola: il Tristram Shandy è
tutto un gioco di parodie sui modelli classicistici della Tragedia
elisabettiana, dallo scrittore vista come paludamento artificioso
dell'angla purezza...
Si tratta dell'aspetto più faticoso (perché il più
umile) del tradurre: costruirsi attraverso letture e riflessioni uno schedario
di termini, un archivio dei registri semantici, con esercizi di corresponsione
tra le diverse lingue. È infatti necessario che ad un arcaismo di Gadda,
per esempio, col suo continuo rimasticare stilemi danteschi, corrisponda nella
lingua d'arrivo un arcaismo dal pari sapore evocativo, o dalla medesima
distorsione del senso. Un esercizio utile, nell'area inglese, è
prendere quel capitolo dell'Ulisse in cui Joyce ripercorre tutta la
storia della lingua inglese, da Caucher al se stesso di Dedalus, ad
immagine di quella biblioteca in cui si svolge l'azione. In Italiano, per
tradurre quel capitolo, si tratterebbe di partire dai poeti siciliani per
arrivare agli esperimenti semantici di un Sanguineti (Laborynthus).
Esistono, comunque, scorciatoie. Infatti, ogni esperienza narrativa è per
sua natura un'esperienza archetipa. Vale a dire che in differenti culture
esistono affinità tematiche ed analogie di intenti. Nell'Italia del
dopoguerra, il caso di Stefano d'Arrigo ripercorre molto da vicino quello
dell'ultimo Joyce. Horcynus Orca è un
'metaromanzo' in cui si affastellano e trovano la loro
'redenzione' espressiva arcaismi, idioletti regionali, tecnicismi,
parodie burlesche, stratificazioni di registri, nella stessa misura tentata da
Joyce nel Finnegan's Wake. Si può, dunque, passare da
d'Arrigo per sciogliere il nodo impossibile dell'ultimo Joyce. Allo
stesso modo, la sintassi ironica ed autoreferenziale del Machiavelli del
Belfagor e della Clizia, oppure gli 'eroici furori'
stilistici di Giordano Bruno, si dimostreranno falsarighe preziose, se si vuole
tradurre in Italiano il Faust di Marlowe.