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2. Cultura e civilizzazione: elementi originari ed apporti stranieri nel progresso storico delle lingue

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a) La questione delle fonti

L'utilizzo delle fonti è il criterio in base al quale si definisce il concetto di letteratura. Alla radice di tutto sta il concetto di esotismo. Le Lettere Persiane di Montesquieu sono basate sull'idea della cultura 'altra' come specchio della propria. Anche il modo in cui Shakespeare, nel Romeo e Giulietta, reimpiega una novella di Bandello mostra l'uso 'scorretto' che un genio creativo effettua dei modelli culturali. Il genio non è filologicamente corretto, ma costruisce i testi come partiture musicali, nell'economia delle quali ciò che conta è la progressione verso il climax. Per un traduttore, dunque, è inutile la conoscenza delle fonti anteriori alla edificazione del capolavoro. Piuttosto, varrà la pena di conoscere gli esiti successivi: le parodie moderne del capolavoro. L'Ulisse di Joyce ci dice molto di più, riguardo alla ricezione moderna dell'Odissea, di qualsiasi commento filologico. Infatti, nell'Ulisse, Omero diventa la mappa per orientarsi nella topografia della città moderna. Walter Benjamin, quando, negli anni Venti del Novecento, dedica a città come Parigi e Vienna monografie che ne delineano la natura di luoghi della memoria per gli scrittori 'canonici', compie un'operazione molto più fruttuosa, per uno scrittore, di qualsiasi commento filologico.

È dunque necessario scoprire gli elementi 'stranieri' nelle culture nazionali, se si vogliono conoscere le regole del gioco. Il caso limite è quello del Don Chisciotte: la biblioteca cavalleresca su cui Cervantes si diffonde all'inizio - uno dei molti inizi - del romanzo stabilisce le coordinate per separare ciò che è 'grottesco' da ciò che è 'lirico', in quanto impossibile sintesi tra i sogni dell'hidalgo e la realtà contro cui si trova a lottare. Per un traduttore, si tratterà di aver ben assimilato i registri evanescenti di Petrarca, senza i quali diventa impossibile tratteggiare Dulcinea, o possedere la vena caricaturale dell'Orazio delle Satire, se si vuole rendere quell'insieme di 'luoghi consacrati' al comico che è la scena della veglia d'armi presso l'osteria. Ma i registri del Chisciotte sono molti di più: c'è il linguaggio curiale dei predicatori gesuiti, derivato da San Giovanni della Croce e Domenico di Guzman, il tono canagliesco dei romanzi picareschi, buono a tratteggiare furfanti perdigiorno (e modellato su Plauto), la parodia dell'Arcadia con le sue svenevolezze riprese da Achillini ed i Marinisti, ecc. ecc. A voler essere drastici, non esiste quasi nulla di 'originario', nel Chisciotte, così come, nei fairy tales di Shakespeare, la presenza di Ovidio domina imperturbabile il gioco degli uomini resi bestie, e viceversa.

L'idea di 'scuola nazionale' presso la repubblica dei traduttori deve trovare accoglienza sospetta.

Anche il rapporto tra le arti risponde a logiche diverse nazione per nazione. Nell'Inghilterra elisabettiana la poesia procede dalla musica: il Masque, con la sua fusione tra ritmica e prosodia, informa di sé i moduli precostituiti in base ai quali il mito scende sulla terra, e le foreste britanniche si popolano di ninfe. Il blank verse ha un gioco di assonanze ed omoteleuti il cui effetto di ridondanza si basa sulle varianti delle radice semantiche. Vale a dire che la poesia britannica, classicista come nessuna, riprende la concezione latina del linguaggio come variazione semantica perpetua, piuttosto che organizzare il discorso secondo la sottile strategia di riprese e reiterazioni simmetriche che caratterizza la tradizione poetica italiana. Eppure, l'origine sia di Shakespeare che di - poniamo - Poliziano, è in Virgilio ed Ovidio. Ma in Poliziano i modelli classici sono mediati da Lorenzo Valla e dalle categorie grammaticali degli umanisti, mentre in Inghilterra l'aspetto 'monumentale' della lingua latina, quella che Cicerone definiva la sua concinnitas (la 'densità') è trapassato inalterato.


 



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