a) La denotazione
Raccontare ed alludere sono due processi linguistici differenti: nel primo
caso, si definisce un'ambienza, uno scenario dentro al quale sia possibile
collocare personaggi e suggestioni; nel secondo, ci si affida alle competenze
culturali del lettore per stabilire con lui un gioco di corrispondenze tra
attesa e soddisfacimento.
L'allusione implica sempre una rarefazione progressiva del messaggio.
In pratica: prima si crea un'attesa, poi la si delude. Nel Pozzo e il
Pendolo di Poe, l'allusione viene attuata attraverso i suoni;
dapprima, il tramestio smorzato ed il progressivo allontanamento dei topi dalle
gambe del condannato legato alle catena, inducono un senso di sollievo; poi,
l'incombere sempre più dappresso dell'ossessivo ticchettio
del pendolo delinea uno scenario di incubo tanto più ossessivo in quanto
'in controtendenza scenica': qui, la scissione tra drammaturgia ed
emozioni assume tinte demoniache. Allo stesso modo, nel Processo, Kafka
risolve ogni aspetto metafisico del dramma nella prima battuta: "K. doveva
avere fatto qualcosa..."; il resto, è solo messa in scena del non
senso, tanto più accurata in quanto deprivata, da quella terribile
captatio principii iniziale, di ogni significato.
Quel 'doveva', insomma, nella psiche di chi legge, prende subito
caratteri di fuoco; diventa un doveva. Come dire che lo stare al mondo,
l'occupare non solo una posizione etica, ma anche soltanto fisiologica,
significa, per ognuno di noi, un peccato originale sotteso a tutto il nostro
esistere...
Ed ecco un primo paradosso: la denotazione, qualora venga perseguita da uno
scrittore dotato di chiarezza metafisica (Dostoevski, Conrad, Camus, piuttosto
che Flaubert o Thomas Mann, per non citare che opposizioni imprevedibili) apre
squarci di abbagliante nitore sulle implicazioni etiche dell'esistere. Il
fare accadere, insomma, nei tempi giusti, con la progressione giusta, è
un atto di accusa al creato molto più efficace di qualsiasi delirio
nichilista. L'artista distoglie l'occhio sdegnato, e questo suo non
essere presente a ciò che racconta diventa, paradossalmente, consonanza
umana.
Un caso limite è quel passaggio della Commedia dantesca in cui
si parla della morte per fame di Ugolino della Gherardesca: "poscia,
più che il dolore, poté il digiuno". Il sospetto che Ugolino
abbia mangiato i propri figli morti di fame si accampa senza speranza nella
mente del lettore; eppure, Borges ha dedicato diverse pagine a dimostrare come
questa sfumatura perversa, a Dante, non sia nemmeno passata per la testa. Dante
ha denotato la morte di Ugolino per fame; noi lettori moderni, a causa
dei pregiudizi di cui è intessuta la nostra visione del Medioevo (e che
ne fanno, per converso, il fascino) connotiamo il fatto che Ugolino abbia
mangiato i propri figli. Del resto, questa transizione, nel saggio di Borges,
non è espressa; l'ho connotata io. Definire, un traduttore
'moderno', nell'ambito di questa controversia, da che parte
debba stare, significa scrivere un vero e proprio manifesto etico
dell'atto del tradurre.
Riassumendo: la denotazione persegue il mito dell'oggettività,
la funzione espressiva della percezione pura. Siccome l'osservazione del
reale è una funzione del punto di vista - unico parametro
'etico' possibile - ne deriva che la connotazione sottende un
giudizio sulla realtà più spietato di qualsiasi allocuzione.
Per un traduttore, la denotazione è terra di tranelli, visto che
comporta l'accettazione di un'ambiguità tra senso e
significato capace di produrre il massimo perturbamento. È famoso quel
detto dei Sofisti: "Epimenide il cretese sostiene che tutti i cretesi sono
bugiardi". L'unico modo per venirne fuori è dissociarsi. Al
tema della dissociazione, Heine ha dedicato una poesia: Der
Doppelgänger: il Sosia. Un amante respinto cammina sotto la luna;
passa sotto la casa dell'amata di un tempo; occhieggia le finestre, e vede
il suo Sosia, il se stesso di allora, vivere la sua breve ed illusoria vita
felice con l'amata. Tutto sembra solo serenamente masochistico. In
realtà, la scelta della denotazione pura crea un gioco di specchi
vertiginoso. La luna è "bleiche Geselle", la "compagna
pallida" del poeta. La luna si specchia nelle finestre; i suoi raggi
illuminano Der Doppelgänger, che, in Tedesco, oltre che Sosia, è
anche Ombra. "Geselle" significa anche "allievo",
"garzone". Il poeta, dunque, in quanto maestro del
"Geselle", della Luna - suo riflesso, come Ombra, nel cammino
verso la casa di un tempo - è allucinazione del poeta di un tempo
(ma è davvero, quello "di un tempo?") ovvero l'amante
felice: prefigurazione, nella mente di un folle, del cammino senza redenzione
che lo aspetta, dopo l'effimera felicità. Tutto questo, è
'interpretazione'? No; in quanto semplice scenario, definizione
sensoriale dello spazio dato, resta denotazione allo stato puro: gioco in cui
l'ambiguità del linguaggio poetico tocca il livello massimo.
Quando si va a tradurre tutto questo, sono guai. L'unica
possibilità è la fuga nella reiterazione: la Luna, dunque,
è la "pallida amante del poeta", "maestro delle
ombre". Abbiamo connotato? Piuttosto, abbiamo mutato il 'teatro
interiore' della scena, con conseguente ampliamento del
'campo'. L'operazione è illegittima, ma espressiva.
Passa attraverso l'immaginazione. Peccato che, così, ci sfugga un
particolare: in Tedesco, la luna è un maschietto: Der Mond.
"Geselle", significa anche "giramondo"; dunque: la luna
è il poeta girovago, senza patria. L'allieva del poeta, insomma,
diserta le lezioni del poeta-maestro. La poesia si rivela, alla fine, anche
una sottile irrisione verso i luoghi comuni del poeta-vate, alla Goethe...
Per questa volta, una bella nota a pie' di pagina non ce la leva nessuno.
Pensate che il problema esista solo nelle lingue straniere? Quando la Monaca
di Monza viene avvicinata dal bel giovane che le farà infrangere il voto
di castità, che cosa ci autorizza a supporre che "la sventurata
rispose" di sì. Ciò che Manzoni ci ha raccontato, della
lussuriosa religiosa, fino a quel punto. Allora Manzoni è Epimenide il
cretese; lo stesso è qualunque traduttore.
Nel Finnegan's Wake, Joyce ha cercato di trarsi d'impaccio
sospendendo ogni distinzione tra percezione e fenomeno. Tutti sanno che "i
fiumi scorrono"; pochi che, sulla pagina scritta, il fiume è sempre
un "riverrun": uno "scorrefiume"; che non vuol dire "il
corso di un fiume"; infatti, a differenza di quello, il
"riverrun" non occupa alcuno spazio scenico. Esso è pura
azione, denotazione pura.
Viene in mente la lapide che Stendhal, vero profeta della denotazione,
dettò per se stesso: "visse, scrisse, amò". Il
traduttore si avvicina tanto più alla denotazione - vale a dire:
traduce - quanto più si avvicina al puro agire. Nel De
Brevitate Vitae, Seneca sostiene che la vita non è breve, ma
diventa tale perché noi facciamo cattivo uso del tempo. "Exigua
parte est vitae qua vivimus": dice, citando Virgilio; "ceterum quidem
omne spatium non vita, sed tempus est". Ora: quando si impara il Latino, a
scuola, ci si affanna a far coincidere con l'ablativo semplice tutta una
ridda di complementi 'moderni': tempo determinato, stato in luogo,
condizione, ecc. ecc., laddove i Latini coglievano la denotazione sublimemente
ambigua di un ablativo assoluto; vale a dire: "ciò che è
così, né può essere altrimenti". Dunque: "pars
vitae qua vivimus" è lo spazio della vita che ci è dato;
fuori di essa, si muove il tempo infinito, che a noi rimane, proprio in quanto
siamo vivi, non percepibile. La "vita" consiste, allora, nel renderci
possibile percepire questo "tempus". Non c'è male, come
potenza filosofica della denotazione pura! Volete un esercizio da far
"tremare le vene e i polsi"? Provate a far passare tutto questo
discorso in Italiano, rimanendo nei limiti della denotazione...
Alle volte, la denotazione può investire l'intera struttura di
un romanzo. Il caso limite è costituito dall'Uomo senza
qualità di Musil, la cui 'trama' è l'Azione
Parallela: i preparativi con cui alcuni alti funzionari dell'Impero
Asburgico si preparano a festeggiare i cinquant'anni di regno di Francesco
Giuseppe. Per i personaggi coinvolti nel trionfalistico progetto, l'Azione
Parallela è l'azione è basta. Per chi è, dunque,
parallela? Per Musil, in quanto osservatore del mondo del proprio stesso
romanzo, che, non per niente, comincia con la descrizione di una bella giornata
di sole su Vienna realizzata utilizzando il linguaggio freddo e
'scientifico' della meteorologia, a suon di isobare e paralleli...
La denotazione, qui, diventa, allo stesso tempo, elisione attraverso
l'enfatizzazione. Il punto di vista iniziale è quello cosmico; la
prospettiva del racconto, al suo interno, dunque diventa quella di una campana
di vetro: la Vienna artificiale di Francesco Giuseppe, dentro cui alcune cavie
del biologo-Musil compiono i loro insensati rituali. Se, quando si traduce, non
si riesce a denotare tutto questo, il senso di divertimento metafisico se ne va
sul battito d'ali di una farfalla: quello capace, secondo la Meteorologia,
di scatenare tempeste ai lati opposti dell'orbe terracqueo...
La poesia arcaica costituisce un valido esercizio di denotazione, per il
traduttore moderno. In essa, l'unica maniera per denotare qualcosa
è la metafora: vale a dire, la relazione, sufficiente ma non necessaria,
tra qualità incommensurabili di oggetti differenti. Così, nei
canti dell'Edda islandese, l'aria è "la casa del
vento"; le aringhe sono "frecce del mare", la barba è
"il bosco della mascella", la panca "albero da sedere", la
birra "marea della coppa", i denti sono "rupi delle parole",
il cuore è "la dura ghianda del pensiero", ecc. ecc. Ancora una
volta, la denotazione è l'arte di rappresentare pittoricamente
l'agire di un ente sopra l'universo mondo, attraverso le
virtù dell'immaginazione interiore. Abbiamo denotato l'atto
del tradurre?
In sintesi, potremmo definire la denotazione un atto allusivo che aspira alla
connotazione, senza mai risolvervisi. È essenziale, per un traduttore,
rispettare questo pudore del testo. I Greci dicevano che la parola poetica
è "pan kai en": il tutto nei limiti dell'Uno. Ne nasce la
necessità di possedere a livello subliminale l'intera drammaturgia
di un testo, prima di tradurlo. Vivere nei parametri della sua drammaturgia,
prima di mettervi mano; rendere la drammaturgia 'atto espressivo'.
Nel traduttore, il tempo dell'opera diventa spazio.
Nel Paradiso di Dante, Dio viene denotato come "la gloria di
colui che tutto move"; essa "per l'universo penetra e
risplende". Dio, dunque, è 'tempo' e, come tale,
'dramma'. Nell'Inferno, Egli 'move' le passioni,
come storia; nel Purgatorio, 'penetra il tempo', mettendo a frutto
la storia di ogni individuo in funzione dell'eternità; nel
Paradiso, 'risplende', avendo ormai liberato dal tempo le anime da
Lui illuminate. La prima terzina del Paradiso denota, insomma, l'intera
Commedia. Abbiamo scoperto il 'fulcro denotativo' del poema.
Ora l'atto del tradurre diventa legittimo.
Il senso delle cose è insito nelle cose, come nella ghianda è
insita, secondo Goethe, l'intera quercia. Nel finale del Faust,
"Alles Vergaengliche ist nur ein Gleichnis": dice Goethe. È
l'inno alla denotazione. Bene: come ti rende questo passaggio finale del
Faust, un celebre traduttore? "Tutto il Fuggente, non è che
Simbolo..." "Simbolo", Gleichnis? Etimologicamente, significa
"ciò che assomiglia a qualcos'altro":
"analogia". Il termine "Simbolo" connota,
"Gleichnis" denota. Infatti, qual è il significato primario
sotteso ad ogni parola, ogni ente: ciò che conferisce a tutto ciò
che per merito suo viene definito, la sua legittimità? Goethe non lo sa:
il suo traduttore, sì, visto che incrosta sulla terribile nudità
dell'originale un sovrastrato cattolico-gesuitico dalla notoria potenza,
storicamente, nel tessuto culturale italiano... Sapete come si salva, Faust?
Perché gli angioletti, nudi e vezzosi, distraggono Mefistofele con le
grazie dei loro glutei androgini... Anch'essi, sono "simboli"?
Il nemico peggiore, per un traduttore, è la paura
dell'horror vacui. Il rispetto della denotazione è il
cimento, per lui, più arduo e perturbante... Il più necessario.
Come dice Borges in una sua tremenda poesia, il pensiero più cupo, per
uno scrittore, è il non sapere, quando descrive una tigre, se ci sia,
dietro le parole, la Tigre archetipa, a legittimare il suo discorso... La
traduzione è la ricerca, dentro di sé, di questa tigre
originaria.