c) L'elisione
Ogni linguaggio ha i suoi tempi, le pause che ritmano il
discorso. La 'velocità' di un linguaggio è dato dalla
sua natura concettuale. L'organizzazione del pensiero può avvenire
in due modi. Prendendo in prestito i termini dalla musica, potremmo definirli:
semeiotica 'melodica' ed 'armonica'. La prima è
orizzontale, e ricerca la continuità, la levigatezza
dell'intonazione, la fluidità dell'espressione. In essa,
'pensiero' e 'discorso' vengono a coincidere. La sua
strutturazione è centrifuga. La punteggiatura vale ad imitare la
strategia del discorso parlato. Nelle lingue 'melodiche', la
definizione conclusiva dell'atto espressivo è la mimesi gestuale. A
questo primo gruppo appartengono Inglese, Francese ed Italiano. Le lingue
antiche vi esulano nella loro totalità. Il Latino ha
un'organizzazione centripeta del discorso del tutto differente, ed
è in questo aspetto che le lingue cosiddette 'neolatine'
possono, in realtà, definirsi tali solo a prezzo di massicce astrazioni.
La strutturazione centripeta, verticale, delle lingue sassoni,
crea tutta una serie di differenze che ne fanno tanti codici
dall'incomparabile retrogusto semantico. Le parole composte così
care al Tedesco poggiano la loro efficacia sul fatto di annullare, in sé,
la distinzione tra soggetto, predicato e complemento, per cui, in esse, è
come se le qualità di un ente reale o immaginario il suo
'carattere' prendesse un aspetto naterico; non fosse
conseguenza di un atto, ma natura del processo per cui l'atto avviene.
Nelle lingue sassoni le cose non succedono, accadono. Nel semantema
Gesänge c'è il senso di qualcosa che è stato
cantato, in tempi anteriori, ed è, quindi, divenuto 'canto':
c'è l'idea di un'epopea, di una tradizione che sostiene
il canto del singolo individuo. Allo stesso modo, in Unsichtbaren,
l'idea dello 'smisurato' evoca la prospettiva di un essere che
non può raccogliersi, lui per primo, nei limiti della propria coscienza.
Che Urteil sia 'fondamento', è noto;
ma impossibile da esprimere è la sensazione, prima ancora che
l'idea, di frammento piovuto da passato, di archetipo quasi biologico, che
questo termine evoca nella psiche di un tedesco. Il retrogusto vagamente
sinistro di inaffidabilità, di ambivalenza sia logica che etica, di
questo 'fondamento', fa di Urteil qualcosa di quasi opposto
alla solida matrice immanentista che nelle lingue neolatine il termine
'fondamento' assume.
In questo contesto, l'elisione assume una valenza di
sintesi tra denotazione e connotazione. L'inizio della Ballata di Mignon,
nel Wilhelm Meister di Goethe, "Es war ein König in
Thule", ha la fissità della follia: quell'Es iniziale è
un monolite sul limite della ragione cosciente. Non per caso, l'Es
sarà la sorellastra non invitata al ballo dell'Ego e del Superego,
durante la festa con cui la psicoanalisi sposò la linguistica
Una
traduzione italiana ormai divenuta 'classica' commette
l'errore di dare al passaggio una valenza fiabesca: "C'era un
re / Un re di Thule", che, rifiutando la potenza ermetica
dell'elisione, scioglie la catena degli 'effetti collaterali'
in nome in una scelta di campo ben precisa: "a Thule, al tempo delle
favole", per parafrase l'inizio della Turandot di Carlo Gozzi.
Ma, se Goethe avesse voluto alludere alla fine dei tempi? Se quel re fosse
l'unico, solitario, uomo sulla terra, e dunque il suo potere
rappresentasse una ridondanza, una beffa della natura che quell'incipit
ellittico intende travestire da apparenza di senso? Thule rima con
Bühle; la morte dell'amata ha tolto al re l'unica
possibilità di senso. Thule è la follia; quel pazzo solitario
sullo scoglio dell'insensatezza si crede re
Ecco perché,
nella cultura sassone, la fiaba è il regno dell'incubo: la
fissità archetipa dei simboli propria al pensiero 'selvaggio'
dell'infanzia permette al linguaggio dei reperti, all'ellittico
monumentalismo delle lingue sassoni, di sprigionare tutta la propria potenza.
Di fronte a tutta questa complessa rete di problemi,
bisognerebbe avere il coraggio di rispettare la monoliticità delle parole
composte: quel processo per cui, in Tedesco, la materia pensa, ed ogni
ricomposizione di termini in un nuovo semantema ha il fascino del nuovo.
Così, "ich blicke nach Osten, befreien" implica
l'orizzonte dell'Est come percezione, ma anche prospettiva
esistenziale; allo stesso tempo, però, allude anche a qualcosa che, ad
Occidente, mi inibisce di guardare l'orizzonte. Da questo muro, se vado ad
Est, io vengo 'liberato', 'befreien': ma questa
liberazione avviene solo 'nach', come conseguenza di una limitazione
subita, e forse accettata. Dunque, la traduzione più pertinente
sarà: "Seguo con lo sguardo il paesaggio d'Oriente, i suoi
liberi profili", permutando al paesaggio ciò che parrebbe il
carattere del soggetto; quasi un destino, nel momento in cui la sua
contemplazione paesaggistica diventa sguardo interiore. Questa semplice frase,
tremendamente ellittica, è l'incipit di un romanzo recentissimo che
mi è appena capitato tra le mani: la scelta di campo del traduttore
influenzerà la percezione del protagonista, la sua esatta topografia
d'ambienza: il rapporto tra spazio, tempo e coscienza, in tutta la visione
interiore che il lettore avrà del progetto narrativo susseguente. In casi
simili, il problema non è linguistico, ma immaginativo. Il traduttore
deve essere il luogo di analisi delle ambiguità, di loro scioglimento in
dimensioni coerenti, dove il viluppo diventi sviluppo, ed, infine, di
ricombinazione delle loro aporie in un viluppo ('semantema') capace
di sviluppare allo stesso grado esplosive implicazioni d'opposti: un
processo linguistico che poggia su di un Urteil culturale, per produrre,
infine, in chi legge, uno straniamento di segno opposto tra senso e significato.
Si comprenderà fino a che punto la coscienza del traduttore, in questo
gioco di specchi in cui ciò che è convesso per lo scrittore
diventa concavo per il lettore, si debba sentire come la maschera di Escher,
chiusa in quelle palle di vetro dove il pittore fiammingo proietta le
prospettive dei suoi mondi ricorsivi, in cui solo Achille e la Tartaruga possono
sentirsi a loro agio, mentre, correndo, tentano il record dell'omicron
lanciato.
Il problema maggiore, dunque, è la salvaguardia della
densità semantica, effetto ed insieme espressione di un ben preciso
progetto drammaturgico. Un'altra distinzione di merito che può
tornare utile allo scopo è quella tra lingue 'esclusive' e
lingue 'esplicative'. Nel Greco antico, le particelle propositive
con cui inizia una frase potrebbero parere esplicative, con quel loro porre un
'dunque', 'infatti', 'perché',
all'inizio di un discorso le cui valenze non sono ancora state esposte.
Anche in Latino, 'nam' ha spesso una funzione di questo tipo. In
realtà, si tratta di allusioni ad una dimensione argomentativa, che, in
quanto procedente dalla coscienza analitica dello scrittore, viene considerata
antecedente la fase dichiarativa vera e propria. Anche l'Inglese antico ha
esempi molteplici di questa strategia, particolarmente evidenti nel
'for' con cui cominciano certe 'moralità' di
Shakespeare (allo stesso modo si comporta 'und', nella Bibbia
di Lutero). In questo caso, l'elisione viene ottenuta, paradossalmente,
attraverso una ridondanza dei mezzi espressivi. Nelle lingue
'esplicative', invece, l'articolazione del discorso procede
sempre da una percezione spazio-temporale esatta del discorso. La causa di
questa distinzione risiede nella maggiore o minore influenza che la concezione
dei verbi, nelle lingue arcaiche, ha avuto sulle lingue moderne. Nelle lingue
antiche, i verbi non hanno tempi, ma solo 'aspetti': indicano le
conseguenze che un'azione avvenuta nel passato hanno sugli eventi del
presente. L'Aoristo greco ed il Perfetto latino significano che un evento
sta alla base di una successione di eventi che procedono da esso, logicamente ed
indefettibilmente, nel presente. È dunque inevitabile che lingue come il
Tedesco, ed, in certa misura, l'Inglese, presentino un grado di elisione
maggiore rispetto alle lingue cosiddette 'neolatine', le quali, di
fatto, hanno trasgredito questo carattere delle loro lingue madri.
Così, in Francese, il soggetto che compie
un'azione viene inserito come particella epesegetica all'interno
dell'azione descritta. Sotteso al discorso, in Francese, c'è
sempre un interrogativo su chi compie quella certa azione, descritta nella sua
eterna immanenza temporale. Ecco perché Verlaine poté dire:
"de la musique avant tout chose"; perché il Francese deduce il
soggetto dalla situazione fattuale, e non lo impone apoditticamente, come fa,
invece, l'Inglese. Quando Baudelaire scrive: "Les sons et le parfums
tournént dans l'air du soir", la traduzione di questo verso in
lingue più 'verticali', più 'esclusive',
dovrà insistere sull'effetto del turbinio, visto come
totalità percettiva, piuttosto che sulla descrizione di un evento.
Infatti, qui, Baudelaire vuole eliminare il più possibile il punto di
vista, la percezione che un singolo spettatore possa avere di un fenomeno visto
come alternativo rispetto alla coscienza umana. La lingua francese è la
lingua dell'hazard. Tradurre Mallarmé diventa, in questo
senso, una lotta contro lo spazio bianco; una edificazione dell'elisione a
momento forte dell'argomentare proprio in grazia della sua assenza,
all'interno di un discorso, di qualsiasi punto di vista.
L'affermazione di Rimbaud: "Io è un altro", sintetizza il
margine di intraducibilità di qualsiasi discorso poetico, se espresso in
una lingua che, come il Francese, 'pensa se stessa'.
Alfred Jarry ha coniato un termine che riassume tutta la nostra
argomentazione: "Patafisica": si tratta di una disciplina 'a
lato' della Fisica, e non 'sopra' la Fisica, come la
Metafisica, etimologicamente, significa. Nella Patafisica il linguaggio
disarticola se stesso; vuol dire solo se stesso. Il dottor Faustroll di Jarry
è il traduttore ellittico per eccellenza, secondo una lezione che poi
Queneau, nei suoi Esercizi di Stile, ha eretto a sistema.
L'elisione, in questa aurea operina, celebra il proprio trionfo. Le cento
maniere diverse per raccontare un incontro in sé alquanto banale
diventano un'indagine filosofica su come la nostra presunzione, in quanto
lettori, del senso, produca il senso di quanto veniamo leggendo. Solo la
'variazione' in linguaggio matematico, quella in interiezioni, e
quella in 'stile' algebrico rimangono universali. Provarsi nella
traduzione degli Esercizi diventa, per un traduttore letterario che
voglia sentire, prima che capire, sulla propria pelle il problema
dell'elisione, un esercizio imprescindibile. Alfred Jarry, nelle Gesta
ed opinioni del dottor Faustroll, patafisico, riassume l'intera
questione in una battuta: "Un epifenomeno è ciò che si
aggiunge ad un fenomeno". Non conosco traduzione migliore di ciò che
significa rispettare il potere dell'elisione, in una traduzione
letteraria.
Infatti, se definiamo l'epifenomeno il processo di
coscienza che, come un basso continuo, precede ed accompagna la descrizione
dell'evento, comprenderemo che ogni opera letteraria parte da una
presunzione di senso che comporta un processo ellittico a priori. Come la
Patafisica di Jarry, la traduzione, allora, è la "scienza del
particolare esatto in un contesto immaginario". Ed ecco la conseguenza
della 'degenerazione' del linguaggio, dal mondo
'centripeto' delle lingue arcaiche a quello 'centrifugo'
delle lingue moderne. Mentre i Latini dicevano "tenet res, verba
sequentur"; "se sai che cosa vuoi dire, le parole sgorgheranno
spontaneamente da te", la possibilità stessa di fare poesia, nelle
lingue moderne, nasce dal principio opposto: sono i verba a connotare le
res. Ecco perché la poesia moderna è, prima di tutto,
poesia di idea; ed è, quindi, sommamente ellittica. Heidegger chiama
tutto questo processo Holzweg: il sentiero interrotto, che si perde nei
boschi. Si tratta di un'espressione ellitticamente efficace. Peccato che
sia del tutto intraducibile in qualsiasi altra lingua.