d) L'enfatizzazione
Da quel catalogo delle navi
con cui, nell'Iliade di Omero, si
riassume la composizione degli equipaggi che partono per la guerra contro Troia,
in poi, la letteratura ha spesso utilizzato la caratterizzazione enfatica delle
vicende attraverso due procedimenti: la descrizione fisica e la inflazione
dinamica. Per dimostrarne la differenza espressiva, prendiamo due scrittori
francesi di età e cultura diverse: Flaubert e Rabelais. La descrizione del
farmacista Homais, nella Bovary di
Flaubert, culmina in due occhi acquosi dentro cui la luce dell'intelligenza (
raison) è sostituita da quella della
nozione (information). Qui, il concetto di 'informazione' richiama,
per assonanza, la 'stampa' periodica, flagello di una Parigi come
quella di fine Ottocento, in cui l'opinione pubblica dettava legge su mode e
costumi. In una traduzione italiana, allora, sarà fondamentale sottolineare
come, nel farmacista, il 'saper che cosa dire' prevalga sul senso del 'cosa
dire', secondo un'opposizione tra cultura e convenzionalismo di facciata che sta
sottesa a tutta la macchietta del personaggio. E allora, bisogna scrivere: 'I
suoi occhi acquosi sapevano che cosa si dovesse dire', oppure 'sapevano che cosa
andava detto', ma non 'sapevano esprimersi'. Gli occhi, in questo caso,
enfatizzano un'ambiguità che è tanto più fisica in quanto, prima di tutto,
semantica. In uno dei passaggi più intensi del romanzo, Madame Bovary, ormai
intenzionata ad uccidersi, si reca in confessione dal curato del villaggio, il
quale, allarmato dalla disperazione della donna, non le sa ammannire che stinti
precetti evangelici. In questo caso, i richiami ai Salmi vanno recuperati
con attenta filologia testuale, riprendendoli da un linguaggio 'patavino', un gergo
provinciale intriso di luoghi comuni e proverbi, tutto fratto ed ansante, ed, in
quanto tale, ben diverso dal lessico altrettanto convenzionale, ma mutuato sui
poeti romantico-parnassiani più deteriori (in particolar modo, Gauthier) tanto
invisi a Flaubert da metterli in bocca, onde solennizzarne il crollo fisico,
alla sua eroina.
Del tutto opposto il caso di
Rabelais. Il Gargantua e Pantagruele
è spesso attraversato da epiteti che i due protagonisti si rivolgono in un
contrappunto osceno dall'infantile comicità: in un caso, al gergale 'con'
(il membro maschile) seguono cinquantaquattro aggettivi qualificativi che attingono a tutti i codici del
linguaggio, da quello sensoriale-gastronomico a quello teologico-filosofico.
L'enfatizzazione, qui, persegue un intento opposto a quello di Flaubert: vuole
far perdere di vista al lettore il riferimento con la situazione contingente,
per sommergerlo in un mondo 'tautologico', materico, liberatoriamente percorso
in un solo colpo d'occhio.
Nel caso di Flaubert, il
traduttore dovrà attenersi al suo orecchio interiore ed alla sua visione interna
della scena per rendere con la massima efficacia possibile lo straniamento tra
la ricerca apparentemente elettiva, del linguaggio impiegato e la situazione di
oscenità morale in cui l'azione precipita; nel caso di Rabelais, si ricercherà,
invece, la più pura meccanicità denotativa, del tutto immune da ogni
articolazione di soggetto e complemento: da ogni 'azione drammatica'.
Per rimanere nell'ambito
della Letteratura Francese, un caso intermedio è dato dal celebre 'monologo del
naso', nel Cyrano di Edmond Rostand.
La successione di attributi che il protagonista conferisce al suo 'promontorio'
ha un che di rabelaisiano per il connubio tra corpo umano e natura inanimata che
li caratterizza, ma il modo in cui il drammaturgo adopera questa elencazione per
imprimere a Cyrano un aspetto rodomontico, un'innata enfasi del carattere che
cela un senso di inferiorità decisivo per gli eventi futuri del dramma, fa
intuire come l'opera risalga all'età del 'realismo borghese'. Per un traduttore,
la difficoltà maggiore nasce dal fatto che, in molti casi, Rostand fa
riferimento ad utensili dell'arredamento domestico, da caffettiere a stirabaffi,
o a manufatti del vestiario, ombrelli e ganci per vestiti, attualmente del tutto
scomparsi, e che vanno quindi rimpiazzati con arnesi che siano riconoscibili
all'esperienza quotidiana dei lettori. L'effetto comico, infatti, qui nasce dal
contrasto tra l'umiltà oggettuale dei paragoni, tipici di una cultura materiale
ancora di estrazione contadina, ed il tono epico con cui essi vengono investiti
di una dignità simbolica, come fossero parti di uno di quegli uomini artificiali
che Arcimboldo, nei suoi dipinti, realizzava assemblando viti, bulloni, livelle
e piante ornamentali.
Uno degli incipit più difficili della letteratura
universale è quello de L'Uomo senza
Qualità di Robert Musil. L'azione si
svolge a Vienna, in un giorno qualunque di primavera. Onde far percepire fino in
fondo la genericità del situazione, ed, insieme, la disumanizzazione
esistenziale in cui i personaggi si trovano a percorrere il loro frenetico
quanto stolto peregrinare tra le vie della città, Musil descrive una complessa
situazione meteorologica, indugiando sulle isobare, le isoterme, i meridiani ed
i paralleli il cui intersecarsi connota il cielo - per quel giorno, limpido - di
Vienna. Si tratta di un passaggio stupendo, in quanto, qui, la denotazione più
nitida e neutra diventa, paradossalmente, connotazione patetica di un'umanità
perduta dietro a vani sogni. Musil articola la sua descrizione per periodi tutti
uguali, tutti composti da una principale ed una subordinata; solo che, per la
particolare caratteristica del Tedesco di consentire un'assoluta identificazione
tra temporale e causale, l'effetto colto da un lettore in lingua originale è
quello di un 'weil' subordinante che, da un atteso 'per cui', assume via via la
valenza di un 'al contempo'. Ne deriva una frustrazione del senso, sostituito
dall'immanenza del vuoto scorrere del tempo. Non si poteva dare espressione
narrativa più lucida al problema, posto negli stessi anni Venti da Heidegger,
della non convergenza tra Sein e Zeit: 'Essere' e 'Tempo'. Come rendere
un gioco di specchi di questo tipo? Rendere 'weil' con 'nel tempo conseguente' è
solo un suggerimento, ma un attento studio del passo ci permette di comprendere
un potente effetto retorico dell'enfatizzazione: la perdita della posizione
centrale della coscienza all'interno del processo descrittivo.
Al principio de L'Eletto, Thomas Mann descrive lo
scampanio ossessivo con cui, a Roma, viene celebrata l'elevazione al soglio
pontificio di Gregorio: l'incestuoso peccatore della cui vicenda di redenzione
narrerà, burlescamente, il romanzo. La maniera icastica con cui viene segnalata
la ripresa, da una chiesa all'altra, del suono, aderisce alla maniera di
Rabelais; anche qui, dunque, abbiamo una progressiva dissociazione tra un'azione
umana ed il suo significato sociale: un progressivo disumanizzarsi del rito,
fino a che questo non assume una valenza contraria. Ed infatti, lungo tutto il
romanzo, le voci immateriali e le sonorità angeliche che guideranno Gregorio
alle tappe del suo peccato saranno seduzioni diaboliche travestite. Suono come
rovesciamento di segno etico, dunque. E allora, tradurre l'incipit con
'suonar di campane'
diventerebbe una mistificazione; si prediligerà, invece, la enfatizzazione
'campane, campane dal suono disteso; su tutta Roma, campane'. Naturalmente,
soltanto una lettura per intero del romanzo renderà evidente questo artificio
retorico. Gli inizi enfatici sono, proprio per la loro intensità icastica, dei
pessimi consiglieri, per i traduttori.
Chi abbia scorso una
traduzione dei Promessi Sposi in
lingua inglese si sarà accorto di come il lunghissimo periodo con cui inizia il
Primo Capitolo venga solitamente risolto in una serie di incisi descrittivi che
richiama il paesaggismo disincantanto di Jane Austen. A forza di porre Manzoni a
modello scolastico di stile, si rischia di mal comprendere le ragioni del suo
operare. Il romanzo comincia con la descrizione di una distesa d'acqua immobile:
il lago di Como, osservato nella sua distesa lontana di montagne, vallate e
serpentine d'affluenti che si confondono con l'azzurro del cielo. Ad un certo
punto, una data viene ad interrompere questo fluviale scorrere indifferenziato
del tempo: a quella data corrisponde un muretto eretto sulle dorsali di un
colle; per quel muretto corre una strada, e per la strada se ne viene Don
Abbondio. Dunque: la civiltà materiale come storia - e, in quanto tale, male,
perché corruttibile - contro la serena atemporalità della natura, non costretta
entro nessun limite, serena perché generata prima ed a prescindere da ogni
contrapposizione dialettica. Il periodo iniziale è l'espressione di una
continuità indifferenziata che impiega le parole per rimandare ad una verità
preverbale. In questo caso, l'enfatizzazione ascende ad un terzo grado di
densità (ogni svolta dell'ambiguità denotativa corrisponde, in essa, ad
un'elevazione del livello allusivo): un misticismo simbolico raggiunto
attraverso l'ironia sui codici referenziali più diretti. Un cortocircuito
linguistico bello e buono, che viene sconvolto dal di dentro se, nel tradurre
questo 'polpettone' iniziale furbescamente autocompiaciuto, se ne smussa la
lucida pesantezza.
Sarebbe percepibile, ad un
pubblico anglosassone, un simile 'controtesto'? A giudicare dai giochi
linguistici di Chaucer, sì. Dunque, soltanto ricorrendo ad arcaismi 'strategici'
pare possibile risolvere un nodo immanente alle diverse maniere con cui la
cultura linguistica italiana e quella inglese delineano il rapporto tra codice e
controtesto. Una verifica secondo il percorso opposto dell'assunto viene dal
tradurre i Racconti di Canterbury di
Chaucer in Italiano: risulterà quasi impossibile non incorrere in connotazioni
desunte dal Boccaccio, mentre, invece, la provenienza dall'area bretone e
sassone delle vicende esclude riferimenti linguistici derivati al Medioevo
italiano dalla vicinanza col Sacro Romano Impero ed i suoi imprestiti
neolatini.
Terminiamo con un esempio
riassuntivo: la Ballata del Vecchio
Marinaio di Coleridge è strutturalmente basata su di una figura enfatica
semantico musicale: 'Water, water everywhere', che, se tradotta con 'acqua,
acqua, ovunque' dà l'idea di un'abbondanza, piuttosto che di una carenza. Questa
morte di sete in mezzo all'acqua salata scatena un gioco di enfasi
sull'ambiguità degli elementi, dove l'opposizione acqua dolce/acqua salata
riprende quella civiltà/natura. L'enfasi, qui, è più vicina al tipo di Rabelais
che a quello di Flaubert. 'Mare, ovunque mare' ha connotazioni melodrammatiche
quasi risolutive. 'Il mare ovunque disteso' ha movenze neoclassiche ed elegiache
antipatetiche. Si potrebbe tentare un 'E il mare, il mare in ogni dove', con
quel senso di incunearsi meccanico che evoca ad un tempo il desiderio di acqua
ed il timore di affogare. Lo scioglimento del problema, comunque, passa
attraverso la percezione interiore del traduttore, qui chiamato, come ovunque
sussista un livello di enfatizzazione, a farsi partecipe del cortocircuito tra
senso e significato, per poi rendere la sensazione del paradosso antidialettico
secondo una nuova strategia, legata agli elementi che, entro l'ambito della
propria cultura nazionale e personale, possono produrre un analogo fenomeno di
straniamento. Il problema risulta estremo in opere che, come i Fiori Blu di Raymond Queneau, sono
progressioni articolate ed inarrestabili verso l'enfasi del codice linguistico
rispetto alla nuda espressione referenziale della vicenda narrata. La traduzione
di quest'opera in Italiano è un 'hic sunt leones' in cui ogni traduttore
dovrebbe, prima o poi, perdersi, per poter dire 'emphasys, emphasys
everywhere'.