e) Walter Benjamin e la lingua di Baudelaire
"La lingua comunica l'essere linguistico delle cose. Ma la sua
manifestazione più chiara è la lingua stessa. La risposta alla questione: Che
cosa comunica la lingua? è quindi: Ogni lingua comunica se stessa". Questa proposizione
di Walter Benjamin, nell'economia del nostro discorso, andrà recepita così:
"Il traduttore deve trasmutare ogni elemento culturale, ogni connotazione psicologica
di cui si valga per entrare in sintonia col suo autore, in un abito linguistico
coerente, funzionale e perfettamente modellato sulle esigenze testuali che via via
si presentano". Tradurre 'alla maniera di' non soddisfa nessuno, se non gli esteti
del virtuosismo filologico. Tradurre 'nello spirito di' è, invece, operazione più
virtuosistica, in quanto meno appariscente. Il traduttore è, prima di tutto, uno
storico della lingua. "L'essere spirituale si comunica in e non attraverso
una lingua; vale a dire che non è esteriormente identico all'essere linguistico",
chiarisce ancora Benjamin.
Perché una simile impostazione 'fenomenica' non diventi fuorviante, bisogna
intendere la 'lingua' come l'aspetto visibile di un movimento interiore alle
arti ed alle ideologie, tale da compenetrare tra loro, in prospettive ben definite,
atteggiamenti che, presi singolarmente, non avrebbero alcun potere di impatto. Così,
chi intenda dedicarsi alla poesia 'epifanica' di Baudelaire dovrà studiare con
attenzione le sue critiche d'arte: i vari "Salons" che, come un 'basso continuo',
articolano la sua evoluzione secondo una progressione alla 'fusione tra i sensi'
ottenuta soltanto a partire da Corrispondenze. Che "la Natura è un tempio" - come
dice il celebre incipit della poesia - tutti lo sanno; ma il senso di quelle
"confuses paroles" che si lasciano sfuggire "vivants piliers" diventerà abito linguistico
soltanto in quanti avranno indagato sulla relazione che esiste tra la 'macchia
cromatica' teorizzata da Delacroix ed il verso liscio come una maledizione su cui
Baudelaire lascia che il senso si annodi in assonanze così sapienti da parer casuali;
e che, per questo, prendono al collo.
A chi si sarà posto il problema dello 'sguardo interiore', suprema risorsa
dell'interprete testuale, non sfuggirà la vox media insita in quel
"confuses": voci indistinte, perché mescolate, 'fuse' tra loro in un sinolo,
una sizigia - simboli, entrambi, della coincidentia oppositorum - al tempo
stessi evidente e imprescrutabile.
È per lo stesso processo di circolarità del segno, che, ad ogni interpretazione,
la prospettiva da cui l'insieme dei particolari, in un testo, si fa paesaggio,
muta il proprio baricentro. Ed è per questo che Pierre Menard, avendo riscritto per
intero, riga per riga, il Don Chisciotte, senza mutarlo di una virgola, ha
scritto, in realtà, un altro libro.
Il non prendere atto di questa aporia dell'interpretazione rischia, per un traduttore,
di trasformare quell'atto d'amore che è la resa di un testo in quella nevrosi che
Stanislawski chiama "la crisi d'identità dell'attore incapace di attingere dalla
propria anima gli elementi di cui ha bisogno".
Eppure, tale nevrosi viene definita, da molti, "principio di oggettività".