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ENGLISH TRANSLATION   

10. DIVENTARE L'ARTEFICE: IL TRADUTTORE COME ATTORE. COME RIPERCORRERE LE ESPERIENZE CULTURALI ED ESISTENZIALI CHE HANNO GENERATO L'OPERA LETTERARIA. IL PARADOSSO DI PIERRE MENARD, AUTORE DEL DON CHISCIOTTE, E LA RIFLESSIONE DI BORGES

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e) Walter Benjamin e la lingua di Baudelaire


"La lingua comunica l'essere linguistico delle cose. Ma la sua manifestazione più chiara è la lingua stessa. La risposta alla questione: Che cosa comunica la lingua? è quindi: Ogni lingua comunica se stessa". Questa proposizione di Walter Benjamin, nell'economia del nostro discorso, andrà recepita così: "Il traduttore deve trasmutare ogni elemento culturale, ogni connotazione psicologica di cui si valga per entrare in sintonia col suo autore, in un abito linguistico coerente, funzionale e perfettamente modellato sulle esigenze testuali che via via si presentano". Tradurre 'alla maniera di' non soddisfa nessuno, se non gli esteti del virtuosismo filologico. Tradurre 'nello spirito di' è, invece, operazione più virtuosistica, in quanto meno appariscente. Il traduttore è, prima di tutto, uno storico della lingua. "L'essere spirituale si comunica in e non attraverso una lingua; vale a dire che non è esteriormente identico all'essere linguistico", chiarisce ancora Benjamin.
Perché una simile impostazione 'fenomenica' non diventi fuorviante, bisogna intendere la 'lingua' come l'aspetto visibile di un movimento interiore alle arti ed alle ideologie, tale da compenetrare tra loro, in prospettive ben definite, atteggiamenti che, presi singolarmente, non avrebbero alcun potere di impatto. Così, chi intenda dedicarsi alla poesia 'epifanica' di Baudelaire dovrà studiare con attenzione le sue critiche d'arte: i vari "Salons" che, come un 'basso continuo', articolano la sua evoluzione secondo una progressione alla 'fusione tra i sensi' ottenuta soltanto a partire da Corrispondenze. Che "la Natura è un tempio" - come dice il celebre incipit della poesia - tutti lo sanno; ma il senso di quelle "confuses paroles" che si lasciano sfuggire "vivants piliers" diventerà abito linguistico soltanto in quanti avranno indagato sulla relazione che esiste tra la 'macchia cromatica' teorizzata da Delacroix ed il verso liscio come una maledizione su cui Baudelaire lascia che il senso si annodi in assonanze così sapienti da parer casuali; e che, per questo, prendono al collo.
A chi si sarà posto il problema dello 'sguardo interiore', suprema risorsa dell'interprete testuale, non sfuggirà la vox media insita in quel "confuses": voci indistinte, perché mescolate, 'fuse' tra loro in un sinolo, una sizigia - simboli, entrambi, della coincidentia oppositorum - al tempo stessi evidente e imprescrutabile.
È per lo stesso processo di circolarità del segno, che, ad ogni interpretazione, la prospettiva da cui l'insieme dei particolari, in un testo, si fa paesaggio, muta il proprio baricentro. Ed è per questo che Pierre Menard, avendo riscritto per intero, riga per riga, il Don Chisciotte, senza mutarlo di una virgola, ha scritto, in realtà, un altro libro.
Il non prendere atto di questa aporia dell'interpretazione rischia, per un traduttore, di trasformare quell'atto d'amore che è la resa di un testo in quella nevrosi che Stanislawski chiama "la crisi d'identità dell'attore incapace di attingere dalla propria anima gli elementi di cui ha bisogno".
Eppure, tale nevrosi viene definita, da molti, "principio di oggettività".


 



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