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La traduzione come 'clonazione': Vittorini, Montale, Quasimodo, Calvino e Ceronetti. La traduzione come 'clonazione': Vittorini, Montale, Quasimodo, Calvino e Ceronetti |
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a) La mappa è il territorio
Ogni traduzione è legata ai codici culturali che governano la ricezione
di un testo: la sua immissione nel tessuto vivo di una cultura. Quando il traduttore è
uno scrittore, la scelta di una traduzione diventa anche un intervento nei parametri
secondo i quali la società letteraria accoglierà la sua figura di artefice. Quando,
nell'immediato Dopoguerra, Elio Vittorini pubblicò Americana, un'antologia
degli scrittori statunitensi del Novecento, la sua intenzione di reagire alla logica
fascista dello Strapaese per orientare i modelli narrativi secondo il realismo
'antimitico' del melting-pot U.S.A. apparve come una vera presa di posizione
poetica, senza la quale l'esperienza di Cesare Pavese, Goffredo Parise e, per certi
versi, anche Alberto Moravia, apparirebbe impossibile.
Successivamente, traducendo Moby Dick, Pavese volle instaurare dentro questa
idea di letteratura vista come 'scena corale del dramma' anche una rilettura degli
archetipi psicoanalitici, definendo, in questo modo, gli assi di una prospettiva ancora
oggi dominante nel contesto italiano.
Naturalmente, l'operazione del traduttore appare, in questo caso, un
ripensamento integrale del testo di partenza, del quale vengono messe in atto,
come fossero energie potenziali, le valenze segrete, i ripensamenti e le contraddizioni.
"Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa - avendo pochi o punti denari in tasca e nulla
di particolare che m'interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere
la parte acquea del mondo": così comincia il Moby Dick di Pavese. Le scelte
pro domo sua di Pavese appaiono chiare fin da questo incipit: dalla patina
arcaizzante e vicina al substrato biblico di "pochi o punti", che sposta su di un'asse
sacrale la connotazione 'Rodhe Island', da WASP elegante, dell'originale, fino
a quel "m'interessasse", che dà una dimensione esistenzialista all'originale, nel quale
si allude semplicemente alla "mancanza di impegni" a terra di Ismaele.
La coerenza di Pavese nel dipanare questo incubo dell'alienazione chiamato
Moby Dick nella dimensione di una 'morte di Dio' che sfreni il potenziale
distruttivo dei suoi archetipi culturali, è totale. Chi conosca La luna e i falò
comprenderà come l'atto traduttivo fosse, per Pavese, un dialogo col proprio inconscio.
Traducendo Light in August di Faulkner, Vittorini compie un percorso ancora
più complesso.
"Seduta sul ciglio della strada, Lena guarda il carretto salire verso di lei,
e pensa: 'Vengo dall'Alabama. Quanta strada! Tutto a piedi dall'Alabama, un
bel pezzo di strada!'" dove il soliloquio ossessivo del personaggio, così tipico
di Faulkner, assume valenze omeriche. Pare che il paesaggio ed il viaggio, la
'cosalità del nulla' - per così dire - siano le uniche presenze capaci di animare
la vicenda.
Nell'originale inglese, "sitting beside the road, watching the wagon mount the hill
toward her" dà una connotazione, tuttavia, meno 'ellenistica'. Il personaggio osserva
la scena con una partecipazione interiore, una progettualità che eliminano in parte
la patina 'antiumanistica', la sconsolata lirica delle cose nude che Vittorini,
tirando dalla propria parte Faulkner, vi immette. Quanto al soliloquio, "I have come
from Alabama - dice la protagonista - a fur piece" dove la connotazione gergale, di
slang 'sudista', dell'originale, nulla ha a che fare con l'intimismo, il
lamento 'parlato' con cui Vittorini lo rende ("quanta strada!").
Appare chiaro, insomma, in Faulkner, un atteggiamento critico nei confronti
dell'originale che lo porta a riappropriarsi in senso 'mediterraneo' - secondo i
codici della propria singolare poetica 'pagana', dove i paesaggi sono sentimenti -
della scabra fissità allucinata a cui Faulkner, fin dall'inizio, tende infallibilmente.
In Moby Dick, il lirismo fenomenico di Pavese, la sua tendenza a raggelare la
bellezza in un istante smarrito nel momento stesso in cui si presenta alla coscienza,
perché la memoria distrugge l'originarietà dello stupore lirico, la sua imperscrutabile
potenza preverbale, lo porta a forzare non poco la descrizione dello stato d'animo con
cui Ismaele si imbarca: "Ogni volta che m'accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni
volta che nell'anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che
m'accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri..." dove
quell'atteggiare al torvo e quel novembre piovigginoso sono più quelle autoriflessioni
di Pavese nello specchio scheggiato dell'anima che egli definisce "ricordi di paese",
che non controtesti stilistici di Melville.
La letteratura italiana del Dopoguerra si è nutrita a fondo di questo lirismo senza
Io, questa estasi che è anche inabissarsi dei sensi in un lago reso torpido dalla luna
nera della malinconia.
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