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La traduzione come 'clonazione': Vittorini, Montale, Quasimodo, Calvino e Ceronetti. La traduzione come 'clonazione': Vittorini, Montale, Quasimodo, Calvino e Ceronetti |
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b) Gli ossi di Shakespeare
Il rapporto tra Montale e Shakespeare interviene nelle regioni
profonde delle poetiche 'ossificate' del Premio Nobel, per il quale la lingua è
invito a non dire, rifiuto a comprendere, litania dell'improbabile. La sua attrazione
per Shakespeare si colloca proprio in quest'ottica: il concettismo del drammaturgo
elisabettiano, la sua attitudine a disciogliere nell'articolazione del linguaggio il
senso del dire: in una parola, quella dialettica senza oggetto in cui molti hanno voluto
vedere il punto critico della sua personalità, diventa, per Montale, un disperato
surrealismo per cui l'anima smarrisce affetti, voce, senso della propria posizione nel
mondo. A Montale, il plot del teatro shakesperiano non interessa; ciò che vale, per lui,
il suo confronto con quei testi, è il modo in cui i sentimenti, crescendo di intensità
mediante un'incontrollata euforia linguistica, si pongono via via al posto dei fenomeni
che vorrebbero descrivere, scindendo la 'persona' in una maschera 'linguistica'
ed un'anima esulcerata, fino all'esito brutale in cui la volontà di intendere
distrugge, in lui, il centro stesso della psiche. L'Amleto di Montale non è un sottile
ragionatore, ma un esteta del frammento: perso nelle caligini della propria impeccabile
logica, non ritrova più il fenomeno che voleva descrivere se non in quel teschio che
Yorik - il buffone, il giocoliere del linguaggio - gli pone davanti a perenne scorno
della sua baconiana potenza deduttiva.
Ad un altro poeta delle 'occasioni', Salvatore Quasimodo, tocca di avere innestato
nell'alveo mediterraneo le caligini concettose del Bardo. Già nei Lirici Greci,
Quasimodo aveva tentato un'operazione geniale: rendere la frammentarietà dei testi una
modalità interpretativa, trascendendo i secoli per proiettare sui momenti estatici e
nostalgici di Saffo o di Alceo la sistole e la diastole della nostra coscienza lirica
di moderni, che è sempre momentanea, fratta ed irrisolta. La risoluzione in 'pagine di
un diario interiore', la narratività ostentata della traduzione di Quasimodo, eleva i
Lirici Greci alla dimensione di coscienza collettiva europea.
Il suo Shakespeare non poteva che rimanerne segnato. Consideriamo il Riccardo
III. Il monologo iniziale apre la serie dei vilain shakesperiani: respinti
dalla natura perché deformi, nel corpo e nella mente, esiliati dalla comunità umana in
quanto affetti da una stigmate che imprime un senso di desolazione al loro incedere
tra gli uomini, rendendo visibile, in loro, l'irredimibile fato, l'indifferenza
della natura alle sorti umane, i vilain shakesperiani parlano da soli, dipanando
la loro vicenda con un'allucinante logica, una baconiana evidenza del vero che fa del
linguaggio il teatro con cui la mente inganna se stessa, cadendo in preda alla natura.
Ecco come Quasimodo rende il monologo iniziale di Riccardo III: "Ma io, che non ho
grazia fisica per simili giochi e neppure per corteggiare un amoroso specchio, io che
sono di rozzo conio, manco della forza regale dell'amore per girare lento davanti ad
una molle, ancheggiante ninfa"; dove l'impulso amoroso viene degradato a raggio
riflesso in uno specchio, pulsione a riprodursi come immagine, prima ancora che
sentimento, mentre, quella ninfa ancheggiante, ha qualcosa del manichino hoffmaniano,
disincarnata com'è da qualsiasi potere seduttivo, per farsi mero simbolo di quella
pulsionalità malata che spinge la natura a riprodursi.
L'appropriazione di Shakespeare in quanto 'incunabolo dell'alienazione', luogo
in cui si prepara la scissione moderna tra percezione e giudizio, non potrebbe essere
più totale.
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