b) L'eterna lotta tra fantasy ed imagination
Prendendo spunto dalla distinzione posta da Coleridge tra fantasy ed imagination, possiamo dire che la
traduzione letteraria è sempre e comunque un atto immaginativo. La stessa imagination, nella concezione di Coleridge, altro
non è che una traduzione intertestuale, in virtù della quale ciò che era destinato a rimanere invisibile prende corpo, in
quanto suggestione testuale, nel teatro della nostra coscienza. Alla luce di tutto questo discorso, prende corpo una variabile
psicologica, culturale ed, in quanto tale, 'tecnica' - potremmo chiamarla: il 'coefficiente di straniamento' - secondo la quale
più l'immaginario di una cultura è alieno al nostro, più la traduzione letteraria necessita di codifiche metatestuali.
In sostanza: che nella teologia nibelungica il male sia nato dal fatto che il lupo di Odino ha ingoiato la luna sviluppa una
serie di 'controtesti' incompatibili con la nostra concezione del Peccato Originale, così come l'usanza attuale di certe tribù
nigeriane di dare un caloroso benvenuto al visitatore lanciandogli una serie di picche destinate a conficcarsi a pochi centimetri
dai suoi piedi, richiede di certo una qualche postilla preliminare.
Il coefficiente di straniamento può essere temporale (interno alla cultura dell'autore) o spaziale (interno alla civiltà della
quale utilizza i codici), ed è quantificabile a seconda che lo straniamento riguardi la cultura materiale, la civiltà estetica,
quella giuridica, l'immaginario artistico o la mitobiografia sacra, in cinque livelli.
Siccome tutto ha origine, ciò che è testo, nel teatro della coscienza umana, tutto ciò che appartiene a culture 'altre' è
traducibile nella propria: l'importante è riconvertire l'ontogenesi dello straniamento nella sua filogenesi. Facciamo un
esempio: le culture arcaiche hanno gli stessi codici animistici messi in atto, nella nostra cultura tecnologica, dagli
schizofrenici; dunque, se devo tradurre il Nibelungslied, con il suo universo popolato di voci e presenze demoniche, conviene
che adotti come manuale le Memorie del presidente Schreiber, il Diario del ballerino folle Nijnski ed i Diari di reclusione di
Artaud, il creatore del 'teatro della crudeltà', mentre sarebbe un grave errore rivolgersi a De Sade, dove la violenza è la
traduzione gestuale di un cimento logico-analitico: un processo culturale, e non un fenomeno di natura.
Ogni teatro interiore del testo, infatti, vive di atti primari (percezioni) ed atti secondari (elaborazioni culturali): i
primi sono individuali, irripetibili, trasgressivi: i secondi, archetipi, catalogabili, rituali. Tra di loro, sussiste la
stessa differenza tra langue e parole che De Saussure pose alla base della moderna linguistica. Quando i fenomeni dell'immaginario
individuale sono potenti, e vengono sviluppati all'interno di una cultura in crisi, diventano, a loro volta, 'tradizione': passano
dal primo al secondo livello. La pittura di Picasso o di Chagall è elaborazione culturale di quanto in Lautrèmont ed Artaud è
percezione del mondo. In questa maniera, si profila, per il traduttore letterario, un pericolo: scambiare per elaborazioni del
secondo livello ciò che, nel testo che traduce, appartiene, storicamente, al primo. È questo a rendere un poeta come Eliot -
personalità, con la sua 'poetica delle rovine', culturale al massimo grado - tanto difficile. Nel caso di Pound, l'adozione,
da parte sua, del contrappunto musicale e degli ideogrammi cinesi intesi come 'simulacri' del senso, allo stesso modo in cui i
Primitivi di Altamira dipingevano sulle grotte i bisonti per fermarli nella corsa, rende tutto paradossalmente più facile. Anzi,
l'aspetto straordinario di Pound sta proprio nel suo voler a tutti i costi evitare un'elaborazione immaginativa del secondo tipo,
pur giungendo al termine di un'intera cultura. Per un traduttore, esercitarsi nella resa sottilmente screziata di questi due poeti
contemporanei tra loro è un ottimo esercizio nella sottile arte dello straniamento.