c) Il testo letterario tra autonomia ed eteronomia
La maieutica del testo nasce dal campo di forze che veicola. Nel Faust di Goethe, il "Prologo in cielo"
serve a proiettare sull'intera parabola il sapore di un divertimento illuministico. In generale, il segreto più ermetico che
un traduttore deve conoscere, l'apriori di ogni atto traduttivo, è questo: non esiste dramma senza l'ironia. Il termine
'ironia' deriva dal verbo greco aireo, che significa "sospensione dal significato". In pratica, dunque, l'ironia è la tecnica
espressiva necessaria a creare un controtesto. Curiosamente, ogni volta che si legge un testo in traduzione, il primo elemento
che pare scomparso del tutto è proprio l'ironia. Il motivo consegue da ciò che abbiamo fino ad ora detto: se ogni linguaggio è
la traduzione in termini linguistici di una rappresentazione interiore, nel soggetto narrante, la scissione tra significante e
significato è una strategia retorica in piena regola: una specie di patto di non belligeranza tra 'sentire' ed 'esprimere'. È
proprio nel contesto di questo patto che il traduttore tende ad esercitare un'azione deformante. La sua sensibilità, infatti,
deforma quella 'risonanza interna' tra percezione e linguaggio su cui è costruita la comunicazione testuale. Il traduttore è
così costretto, se non vuole alterare la strategia espressiva dell'autore, a porre un diaframma tra la sua connotazione di
lettore e quella di interprete del testo. Tradurre, in effetti, comporta il lasciar passare diverso tempo tra la fase in cui
il testo viene fruito a livello estetico e quella in cui esso diviene un campo di forze rinnovato, e per certi aspetti autonomo
rispetto alla sua 'figura' iniziale.
Tale autonomia non si traduce in una riassunzione individuale dei codici. La traduzione letteraria non è il luogo di
compensazione di istanze creative non realizzate. Piuttosto, il gioco di opposte suggestioni tra autore e traduttore si
esprime come permeabilità di un ecosistema rispetto ad un altro. Solo l'accettazione di quanto è eteronomo rispetto al
sistema-lingua può fornire al traduttore gli elementi per una ricognizione del testo come ricognizione di un intero mondo
interiore.
Il tempo interiore scandito, in Aurelia di Gérard de Nerval, dalla confusione, nel narratore, tra sogno e sveglia, si esprime
attraverso una serie di ritratti di donne la cui natura di 'vampiri psichici' appare dal modo in cui, nel narratore, deprivano
il tempo delle percezioni per accampare, in suo luogo, lo scenario bianco della psicosi regressiva. Per un traduttore, si
tratterà di individuare, volta per volta, i punti di vista attraverso cui lo scenario drammatico giunge alla sua definizione
sensoriale: alle volte, è il narratore ad essere sognato dalle donne che sogna.
Un altro testo in cui il problema della curvatura spazio-temporale assume connotazioni paradossali è il Tristram Shandy di
Sterne: un'autobiografia il cui protagonista nasce a tre quarti del libro, e presenta (in senso materiale) ai lettori la sua
lapide - fissandola con due buoni bulloni sulle pagine del romanzo - nel secondo capitolo. L'inizio del romanzo è scandito dal
ticchettio di una pendola zoppa, 'basso continuo' sul pulsare del quale Tristram viene generato, ed origine della sua andatura
sciancata. Il fluire regolare del tempo, nel romanzo, ha la fissità di un fenomeno straniante; soprattutto perché, entro
questa definizione di 'infinito affabulatorio', si inscrive uno spazio limitato ad un giardino ed un muro di cinta, al punto
che Sterne, quando deve descrivere i viaggi di Tristram, traccia dei ghirigori sul foglio, come fossero il tracciato di solchi
lasciato sul terreno da formiche che si illudano di compiere il giro del mondo.
L'esperienza esistenziale di un personaggio può venire partecipata per empatia, giudicata per scepsi critica, rinnovellata in
modo favolistico o riassunta per 'sprezzatura epigrammatica'. La passeggiata di Leopold Bloom per Dublino è il caso limite
della prima strategia, che appare, però, in modo più diretto, perché libera da connotazioni metaletterarie, nel Giro del mondo
in ottanta giorni di Verne, per esempio. La seconda strategia ha il suo esempio sommo nella Madame Bovary, il cui spaziotempo
iniziale, non per caso, è quello dell'aula scolastica dove il piccolo Charles Bovay, il grigio medico condotto, futuro marito
di Emma, si presenta ai suoi compagni, che subito lo deridono. Il racconto Olympia di Hoffmann è un esempio del 'retrogusto'
sardonico e grottesco, molto gotico, che può assumere la terza strategia spaziotemporale. Infine, La rovina di casa Usher di
Poe esprime con la massima concentrazione l'effetto di 'controsaggezza sterile', di paradossale anti-illuminazione, dagli
esiti sommamente drammatici, che la quarta definizione dello spazio-tempo può attingere. Il narratore sa che non deve recarsi
da Roderick Usher; ne prevede la fine, anticipa con i suoi sensi la catastrofe, e ne fa partecipi i lettori; eppure, proprio
il senso di fatalità, di atto che si è già verificato, e si ripeterà in eterno, accentua il carattere orroroso della narrazione.
Magari, non sarà proprio il narratore, l'artefice della ciclica sventura che si abbatte sugli Usher?
Per un traduttore, definire queste quattro strategie con estrema esattezza vs economia di mezzi atti a definire i diversi
teatri dello spaziotempo, si configura come una sfida creativa difficile ed esaltante. Nessuna lingua, infatti, quanto alle
determinazioni dello spazio e del tempo, possiede criteri di analogia perfetti.