c) Tolstoj e l'aporia della traduzione
Ne La morte di Ivan Iljich, Tolstoj gioca su di un effetto di sfasatura tra l'asse diacronico
della langue e quello sincronico della parole che potremmo definire "distorsione del processo di riconfermazione".
Proprio quando Ivan, col suo mutismo, il suo alienarsi dagli altri, cerca di suscitare interesse e partecipazione
empatica al proprio dramma, ecco che il mondo circostante dapprima scambia la disaffezione del moribondo alle cose
di tutti i giorni per bizzosa alterigia; poi, di fronte alla rivelazione della sua fine incombente, tutti, invece di
trascendere ad una compassione religiosa, si ritraggono con uno straniante senso di ribrezzo che prende, qui, il
posto della serenità metafisica. Ivan assiste al modo in cui i suoi intimi prendono congedo dal suo corpo, come
fosse già fatto di gelo, e prende coscienza di come il linguaggio dei gesti, dei silenzi, delle aposiopesi sottese
ad ogni risposta negata, sia una langue strutturata in piena regola, ed al cui interno, nella meccanica del consenso
autogenetico, il dolore del corpo trovi posto sotto forma di sommamente intensa, inesprimibile, parole. La catarsi
di Ivan è tutta in questo trascendere il senso comune. Il perdere fiducia nella comunicazione umana, nella langue,
gli permette di raggiungere il distacco dal tempo in piena serenità di spirito. In questo vertice della sua
produzione, Tolstoj ottiene di raccontare l'alienazione della morte come progressivo distacco dal linguaggio.
La comunicazione è basata sul fraintendimento del senso. Parlare significa dare la morte al senso della vita, che
diventa attingibile solo nel momento fatale. Solo nella solitudine del morente si annida la verità, che, nel momento
in cui viene concepita, non può mai divenire 'storia'. La meditazione sulla morte diventa, in questo racconto,
anche metafora sconsolata dell'atto traduttivo.