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Tra tradizione e crisi: la trasgressione degli artefici. Neologismi, arcaismi,
forme gergali e caratterizzazione degli 'idioletti'. Definizione teorica per
livelli delle incompatibilità tra le lingue letterarie, e sua risoluzione nella prassi. |
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c) Linguaggi privati e coscienza della crisi
La difficoltà maggiore, per il traduttore, quando si imbatte negli 'idioletti', è smarrire il
proprio Io, per seguire le derive imprevedibili della lingua. Due testi illuminanti questo processo provengono dal
surrealismo, e sono i Calligrammi di Apollinaire e quello strano 'conte philosophique' al contrario in cui
Klossowski espresse il proprio odio per l'Illuminismo: Le leggi dell'ospitalità. Apollinaire scrive
papier-collée articolati su fonemi, sillabe e suoni di natura separati dal loro contesto. Ogni possibile
traduzione passa attraverso l'accettazione della scelta strutturale, e della sua coincidenza con una qualsiasi
assunzione di poetica. Il 'come dire' qui, è il 'cosa dire'; da cui consegue che la sua traduzione sta nel
'dire altro'. La poesia intitolata "Piove", con quei caratteri sciolti che scivolano in orizzontale sulla pagine,
è l'atto di morte di ogni ricerca di connessione sintattica: una maniera grammaticale per siglare la niciana "morte
di Dio". E chi potrà, qui, pensare ad una traduzione 'esatta'?
Klossowski, da parte sua, articola il suo 'romanzo' attraverso una libera articolazione di trattati di poetica
à la Boileau, dialoghi teatrali, poesie liriche, referti clinici in cui la narrazione è resa impossibile dalla
sua stessa meticolosità. L'esito ultimo di tanta protervia sperimentale sta nel rifiuto del punto di vista perseguito
dalla scuola del Nouveau Roman, dove si può scrivere un giallo in cui, al momento dell'assassinio, l'attenzione
dello scrittore si rivolga a tal punto sulle sfumature di colore della giacca scozzese indossata dall'assassino da rendere
secondaria la rivelazione del suo nome.
Uno scrittore che conduce al suo esito estremo questa disarticolazione del senso è Georges Perec. In Le cose,
la narrazione consiste esclusivamente in un elenco di beni materiali: utilitarie, televisori, elettrodomestici, capi
d'abbigliamento dei grandi magazzini; non esiste un atto di accusa più spietato del falso benessere piccolo-borghese
trionfante nel Dopoguerra. In La vita: istruzioni per l'uso, il protagonista è un condominio: la narrazione è
scandita secondo i suoi luoghi: atrio, appartamenti, tromba delle scale, ascensore. Con un colpo di genio, Perec
sostituisce la descrizione degli oggetti con la loro fotografia: il tutto rimanda ad un universo fattuale da cui il
problema attorno a cui si è affannata l'intera letteratura occidentale: la coscienza, viene allontanato con un atto
di forza. Anche il tempo, qui, non esiste: tutto si svolge in un eterno presente che, dal momento che non viene
percepito da nessuno, si fa, per ciò stesso, memoria. Contro un'efficace traduzione agisce, in questo caso, la
tendenza connaturata nella nostra cultura alla risoluzione drammatica dei nessi impliciti, quando, all'opposto, solo
la rinuncia ad ogni possibile drammaturgia costituisce la chiave di volta del problema.
Questo tipo di antiromanzo, in definitiva, pone lo stesso problema dei limmerik e degli aiku: forme
poetiche basate, il primo sugli effetti paradossali delle assonanze interne e le rime in fine di verso; il secondo,
sull'obbligo all'essenzialità enigmatica che la regolare struttura di sette versi senza rime ed assonanze, impone.
Un esercizio su queste forme eminentemente nazionali - anglosassone la prima, giapponese la seconda - costituisce un
esercizio valido per la resa di simili paradossi moderni.
L'estetica che sovrintende alla degenerazione dei linguaggi nazionali in 'idioletti' - intraducibili, perché
mutevoli a seconda del 'tono di voce', piuttosto che del 'punto di vista' - è una prospettiva del rovesciamento
tra significante e significato. Ciò che viene detto prende corpo dalla stessa retorica del dire. Ogni traduzione,
dunque, sarà tanto più 'esatta' quanto più saprà inventare una propria retorica: una cifra espressiva che sia
impermeabile alle esigenze dell'espressione, per quanto materica, non allusiva, ossessiva riesca a mantenersi. Ecco
perché il modello di elezione da cui ogni traduttore deve partire per una ricognizione all'interno di queste tecniche
inedite è Esercizi di stile di Raymond Queneau: una serie di cento variazioni su di un tema inconsistente, un
semplice episodio di vita quotidiana la cui anodina evidenza non potrebbe essere più lontana da ogni pretesa di
drammaticità. Queneau espone questa stessa controvicenda usando tutti gli stili possibili: dal teorema matematico al
verbale di polizia, dal sonetto alla commedia in quattro battute, passando per tutte le modificazioni usuali alla
retorica antica: iperbato, ipallage, sineddoche. Anche l'altro capolavoro di Queneau, I fiori blu, con quel
fondo linguistico di epopea carolingia preso di peso da La Chanson de Roland su cui si sovrappone una vicenda
moderna pensata nell'argot parigino, costituisce una 'palestra' ideale. Umberto Eco ed Italo Calvino hanno
dato traduzioni di Queneau che rappresentano modelli di studio imprescindibili. In ambito italiano, Luigi Malerba,
con Il Pataffio, ha operato una ripresa degli stessi spunti tanto più degna di nota come parametro di confronto,
per un traduttore, quanto più le malintese esigenze odierne di un 'nuovo realismo' hanno determinato, negli ultimi
tempi, una deformazione di quegli stessi orientamenti grotteschi affluiti nel nostro secolo grazie a Döblin. Ora, tra
molti giovani narratori, il realismo sta nella verosimiglianza dell'ovvio, e la messa in crisi del codice linguistico
non ha più senso, in quanto la perdita del centro viene negata, ed il significante è tornato ad essere mera espressione
delle congiunture spazio-temporali entro le quali, visivamente, si colloca l'azione.
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