a) La perversa innocenza dei traduttori automatici
Ogni atto di comunicazione parte da una presunzione di innocenza: quello che Steiner
definisce il "postulato di Babele", per cui, se un testo è incomprensibile, la ragione non deve stare
nella malizia umana, ma in un intervento soprannaturale. Se venisse a mancare la presunzione del senso,
l'intero ordine sociale verrebbe smantellato dalle sue fondamenta. Inevitabile l'idea che ogni atto di
manipolazione del senso sia di origine trans-umana. Alla luce di tutto questo, affidare ad enti trans-umani,
i traduttori automatici, il trasferimento del senso da una lingua all'altra, appare un'infrazione del
patto di Babele bella e buona.
La comprensione del linguaggio essendo un atto culturale su base storica, ogni atto di comprensione è una
riscrittura del testo, in quanto comporta la decodificazione di vari livelli testuali: da quello
referenziale a quello simbolico, passando per il ginepraio delle metafore e dei significati traslati.
Ogni percorso linguistico, dunque, funziona per pattern: stringhe sintattiche il cui esito ultimo
è la fusione tra testo e contesto; la messa in scena del significato nello spazio-tempo, il teatro
interiore del senso.
Nella conversazione quotidiana, tutti noi conosciamo i percorsi del non-detto; per esempio, sappiamo
che un nome di persona non va tradotto: esso, infatti, appartiene al livello 'iconologico', dove il
nome è la sua determinazione di senso. Un traduttore trans-umano, questo, non lo sa. Per lui, il
direttore d'orchestra alsaziano Charles Munch è "Carlo che mastica forte con la bocca", mentre il
compositore Karlheinz Stockhausen diventa "Carlo Enzo che picchia forte col bastone". Leonard Bernstein
è "Leonardo Ambra", con felice resa dell'yddish originario; Charles Singleton diventa "Carlo dal
suono solitario": emanazione esistenzialista di un personaggio che Defoe, nel romanzo omonimo, volle
emblema stesso del vitalismo. Il linguaggio iconologico, nei traduttori trans-umani, muta, insomma, di
livello: diventa 'rappresentativo'.