a. Il concetto di 'campo'
Il percorso che conduce dalla percezione alla sensazione, e da questa alla
concettualizzazione, è complesso ed in gran parte ancora misterioso. Le
culture antiche, attraverso gli ideogrammi, esprimevano allo stesso tempo
immagine e pensiero. Del resto, la parola "idea" deriva dal greco
eidolon, che significa "rappresentazione visiva". La vista
formalizza il pensiero. Il ripetersi delle figure crea aspettative cui, dando
nomi, conferiamo il valore di 'cose'. Se il valore è, come
dice Max Weber, ciò che orienta l'attesa ed il desiderio, ogni
cultura linguistica è un'organizzazione dei valori che presiedono
alla scoperta del mondo. Ne consegue che ogni lingua è
l'espressione di un diverso modo di concepire il mondo. Non si tratta di
una questione filosofica, visto che ad essere coinvolti sono, prima di tutto, i
sensi. Quando Omero definisce il mare "color del vino", non adopera
una poetica 'visione di scorcio', ma esprime la percezione che i
suoi contemporanei avevano del riflesso del sole sull'acqua. Il
cristallino, infatti, è una struttura, nell'occhio umano, a lenta
evoluzione. Le trasparenze e le velature di un Monet, per gli Attici, sarebbero
di un nero e violetto uniforme.
Ma le lingue letterarie non si formano solo attraverso le sensazioni e le
caratteristiche fisiologiche di un popolo. Un elemento importante sono anche le
consuetudini di vita. Quando, nel Cantico de'; Cantici, i
seni della beneamata sono paragonati a gazzelle, noi non riusciamo a scorgere
nella metafora una pulsione erotica se non consideriamo come, nelle antiche
civiltà transumanti, le donne avevano l'incarico principale di
attingere l'acqua e recarla al villaggio su otri di coccio che poi
tenevano in bilico sulla testa, per cui l'immagine originaria della
Bellezza era il profilo oscillante di seni sul margine dell'orizzonte. Da
qui a vedere nelle donne in lunga schiera un branco di gazzelle, con le
più giovani pronte a dirazzare, per poi venir rimesse nei ranghi, e
paragonare il seno della donna amata a tutto questo, si snoda il percorso che
distingue la lingua d'uso da quella letteraria. La nostra visione della
bellezza, al contrario, nasce dalle Madonne rinascimentali, immobili sullo
sfondo di una natura stilizzata, oppure dai ritratti raffaelleschi, con quei
profili delineati come margini tra la luce dell'incarnato e la distesa
serenità degli orizzonti lontani.
Questa visione 'dinamica' della bellezza comporta una prospettiva
differente dalla nostra, nel teatro della mente dentro cui le esperienze della
vita definiscono i lineamenti della visione. Un altro esempio: in una poesia del
cinese Li Po, alcuni giovani bevono e ridono festosi in una pagoda. L'idea
(eidolon) pare esprimere spensieratezza, non fosse che il riflesso delle
loro immagini viene trascinato dalla corrente del fiume verso un ineluttabile
annullamento... Una cultura stilizzata, tutta di profilo, attenta ai
contorni piuttosto che al prospetto, come quella cinese, non può che
vedere la verità come un'ombra profilata sul muro. Quella cinese
è una cultura del Sosia, oltre la maschera sociale imposta dal
Confucianesimo.
Nel Romanticismo, anche l'Occidente comincia ad essere ossessionato
dall'idea del Sosia come rivelatore di verità nascoste. In una
celebre poesia di Heinrich Heine, Der Doppelgäenger, un Viandante
ossessionato dalla luna passa davanti alla casa in cui ha conosciuto la
felicità amorosa. I raggi della luna si riflettono su di una finestra,
dietro la quale il protagonista scorge il se stesso di allora; e ne prova una
profonda gelosia, mentre la luna proietta la sua ombra sul terreno. Siamo nello
stesso 'campo' di Li Po? No: qui, la verità del Sosia
è un'ombra proiettata nel tempo; là, nello spazio. Ma
è logico ritrovare la poesia di Li Po ne Il Flauto Cinese,
l'antologia buddista compilata dal tedesco Hans Bethge alla fine
dell'Ottocento...
Rimaniamo in area tedesca. Nel Nibelungslied, l'oro e la porpora
sono i simboli dell'umano desiderio di potenza; la spada e il frassino
quelli della liberazione. In una cultura in cui l'organizzazione per
Sippe, clan legati da rapporti feudali, costituiva la struttura sociale
dominante, l'oro della corona era sinonimo di guerra civile. La
rivoluzione di Carlo Magno, e la successiva fondazione del Sacro Romano Impero,
capovolge del tutto questa prospettiva simbolica. Muta, ai nostri occhi, il
campo. Tanto è vero che il Barocco, punto di passaggio obbligato alla
civiltà 'moderna', fa dell'oro e della porpora i
simboli del potere redentore della fede. Allo stesso modo, nella società
altomedioevale, in cui i rapporti tra i sessi erano regolati
dall'impermeabilità della classi sociali, e la passione erotica
era, dunque, adulterina, la 'drammaturgia' dell'alba è
una messa in scena della morte, e non il risorgere della vita. Quella
tardomedioevale è una cultura della Notte, dove la separazione tra luce e
tenebre non è ancora diventata lo scenario di un duello tra bene e male.
Si tratta, insomma, di una cultura 'laica'. È ancora un
tedesco, Richard Wagner, a ritessere le fila di questo percorso interrotto,
quando, nel Tristan und Isolde, fa del duetto notturno degli amanti il
momento in cui la vita trionfa sulla costrizione delle maschere sociali, le
maschere diurne. Lo abbiamo già visto in Heine: il Romanticismo, con la
sua escursione verso culture aliene e/o arcaiche, intende recuperare una
dimensione 'laica' dell'esistenza...
Che cosa comporta, tutto questo discorso, di pratico, per un traduttore
letterario? Prima di tutto: la consapevolezza dei pregiudizi, delle prospettive
originarie, delle simbologie, delle 'culture', insomma, in cui il
suo immaginario si muove, e da cui dipende il giudizio che la sua mente si forma
sul testo da tradurre. Questo giudizio è in tutto e per tutto un
a-priori. È il suo personale 'campo' di osservazione,
entro cui vengono collocate, archiviate e interconnesse anche le proprie
esperienze personali. Che cos'è, dunque, il 'campo'? Un
insieme di parametri prospettici, risultato di dati percettivi che nascono dalla
costituzione fisiologica, l'educazione culturale, il temperamento emotivo,
l'esperienza esistenziale di un traduttore. Ogni 'campo' ha
elementi collettivi ed elementi individuali, ed ognuno è irripetibile ed
incompatibile con altri, perché comporta un gioco di allusioni,
evocazioni, riferimenti ad un mondo interiore che è, per sua natura,
intraducibile.
b. La lingua letteraria come visione di scorcio
La lingua d'uso si differenzia da quella letteraria per la natura della
'visione' che veicola. Nella lingua d'uso, la visione ha, come
valore, l'oggettività; in quella letteraria, la
soggettività. Vale a dire che nella lingua letteraria le implicazioni, le
suggestioni di quanto si dice, hanno più valore di quanto si dice.
L'intenzione prevale sull'espressione. Il desiderio di venire
- per così dire - equivocati ha più importanza della
chiarezza. L'efficacia è la ridondanza, l'aura che si
proietta intorno al testo. Il senso, in letteratura, è il significato.
Che cos'è la visione di scorcio?
Se entriamo in una cattedrale gotica, il ripetersi, con lievi scentrature,
dei transetti e della teoria di colonne, culminante nei rosoni, suggerirà
l'impressione di tante diverse cattedrali - ognuna identica come
modello, ma diversa come struttura - quanti sono i possibili punti di
vista dell'osservatore. La cattedrale gotica cerca di fare, del tempo,
spazio. Di suggerire l'uscita dal tempo, così come la vita umana
è destinata a culminare nella serenità uniforme della Città
di Dio. Il primo requisito della visione di scorcio, dunque, è la sua
stilizzazione degli elementi fondamentali del discorso, al fine di poterli
liberamente ricombinare e sovrapporre. Se consideriamo la nostra memoria, sia
individuale, che collettiva, come lo spazio di una cattedrale, ci porremo
già nella dimensione più adatta ad una ideale psicologia del
traduttore. Perché? In effetti, si tratta del processo che sta alla base
di ogni atto creativo letterario. L'esempio più illuminante
è quella cattedrale gotica di parole in cui, idealmente, consiste la
Recherche di Proust, dove le stesse cose: campanili, marine, tendaggi,
volti e discorsi, assumono sensi nuovi a seconda dei collegamenti spaziali che
la memoria stabilisce tra loro, a partire dei due punti di vista iniziali: du
cote de chez Swann, du cote de chez Guermantes. Si tratta di due strade, che
portano l'una alla casa di Swann, l'altra ai Germantes: ma è
sulla biforcazione di questi due spazi del pensiero che si articolano i diversi
punti di vista della narrazione. "Del nostro proprio corpo, dove
affluiscono incessanti piaceri e tanti dolori, non abbiamo una visione precisa
come quella di un albero o di una casa o di un passante": così
Proust, che fa del corpo un teatro, una scena su cui proiettare, come le ombre
cinesi di Li Po, gli eventi.
La prima qualità della visione di scorcio, dunque, è la sua
densità. La seconda è la reversibilità, per cui un
particolare precedentemente indifferente assume, poi, un significato rivelatore.
Si pensi a Il Pozzo e il Pendolo, di Edgard Allan Poe. Il
ticchettio che, unica percezione di suono, colpisce la coscienza del
protagonista, al suo risveglio, non assume, all'inizio, alcun significato.
Tutto è avvolto nel buio. Che quel ticchettio sia la discesa
irreversibile di una mannaia lo si percepisce solo man mano che la coscienza del
personaggio ne assume l'evidenza. Allora, retrospettivamente, veniamo a
sapere che la Morte è il rumore del tempo, e quel ticchettio prende la
forza espressiva ed allucinata di un simbolo metafisico, pur non perdendo
affatto la sua evidenza icastica e sensoriale. Nel racconto di Poe, noi
scopriamo lo spazio esterno stando all'interno della coscienza del
protagonista. La terza qualità della visione di scorcio è il suo
essere funzione di un punto di vista.
c. Soggettività ed oggettività nel linguaggio
letterario
Nel suo Tolstoj e Dostoevski, Mereskovski teorizza una differenza di
impostazione primaria tra i punti di vista. Esistono narratori che vivono la
scena dall'interno del protagonista, e narratori che descrivono emozioni e
stati d'animo visualizzandoli attraverso il modo di vestire, di
gesticolare e di esprimersi del personaggio. I due scrittori russi rappresentano
gli archetipi di queste due modalità, che il traduttore deve saper
distinguere, se non vuole alterare, confondere le differenti poetiche che queste
due 'tecniche' sottintendono. Per raccontare l'ultima notte di
un condannato a morte, posso entrare nella sua psiche, e narrare di come
soltanto ora comprenda ciò che gli era stato insegnato sul destino, e
sull'idea che la natura continui il suo corso nel tempo, indifferente agli
individui, magari rievocando la figura di un amico filosofo anarcoide che gli
abbia condizionato la vita ed il pensiero (una specie di suicida suggestionato
dalla filosofia niciana, o chissà che altro); oppure posso raccontare che
le ombre degli alberi sul muro della cella gli sembrano le mani del boia pronto
a ghermirlo. Nella prima ipotesi, prevale l'idea della narrazione come
codice 'culturale', tanto più valido quante più
relazioni è capace di stabilire col mondo delle idee formative un popolo
ed una civiltà; nella seconda la concezione della vita come mutevole,
inafferrabile nel suo significato ed irriducibile a sistema.
Si tratta di una questione sottesa a tutto il discorso letterario, per cui,
quando Melville, nel Moby Dick, racconta la caccia alla balena bianca,
non stia parlando di un cetaceo, ma del senso della vita. Oltre a Melville,
Conrad, Flaubert, Hemingway, Camus, sono tra i massimi esempi della scelta
'oggettiva', mentre Thomas Mann, Henry James e Sartre appartengono
al novero degli scrittori 'soggettivi';. In generale, la tradizione
anglosassone è più oggettiva, quella mitteleuropea non lo è
quasi mai (eccezioni luminose sono Döeblin e Schnitzler).
Si potrebbe razionalizzare questa distinzione anche come opposizione tra
'denotazione' e 'connotazione'. Nel primo caso, si
descrive; nel secondo, si commenta. L'aspetto interessante del problema,
per un traduttore, sta nella sua natura linguistica. Infatti, mentre una lingua
come l'Inglese tende per sua natura a denotare, alle lingue germaniche
risulta più naturale connotare, in quanto sono basate sui nessi
subordinanti, sulla riduzione delle distinzioni temporali a quelle spaziali, e
sull'articolazione 'gerarchica' del discorso,
all'interno delle singole strutture espressive.
L'Inglese è un idioma nato dai contatti quotidiani tra popoli
transumanti, necessitati dalle mille incombenze quotidiane a trovare una
modalità di comunicazione per le mille esigenze della vita. Dunque, si
tratta di un 'idioletto' a predominio giuridico e commerciale. Il
Tedesco, viceversa, è nato d'un sol getto dal genio di Lutero,
impegnato, durante la sua forzata clausura al castello di Warburg, per sfuggire
alla condanna pontificia, a tradurre la Bibbia. Ecco perché la sua
struttura è logica, analitica, e come fusa in un'unica campata.
Quanto al Francese e l'Italiano, sono la somma di vari idioletti
settoriali: la lingua delle corti, della curia, della nobiltà, degli
artigiani, degli artisti cosmopoliti: ecco perché la loro
sistematizzazione è avvenuta ad opera di accademie preposte allo scopo,
che hanno loro assicurato un aspetto 'monumentale', a prezzo,
però, di una scarsa duttilità espressiva.
Il problema della traduzione letteraria passa soprattutto per queste
distinzioni di merito.